Largo alla speranza
Un cancello si apre. Siamo a Pietralata, una delle tante periferie di Roma. È una tranquilla domenica pomeriggio. Papa Francesco entra in un campo nomadi per una visita non annunziata. Un bambino urla: «C’è un uomo vestito di bianco». Si avvicina una donna. Non le sembra vero colui che vede davanti ai suoi occhi. Il volto è felice, ma sembra titubante, tanta è la sorpresa e la meraviglia. I gesti di papa Francesco parlano più di tante parole e riflessioni. Presenta con il suo esempio il modello nuovo di evangelizzazione che desidera per la Chiesa, perché sia più aderente al Vangelo, all’esperienza umana che ha fatto Gesù sulla terra.
Lo stesso approccio lo desidera in ogni visita che compie. Lo farà anche nella prossima visita a Napoli. Comincia da Scampia perché vuole una Chiesa decentrata da se stessa, orientata verso gli altri, verso le periferie anche esistenziali non solo geografiche. Nel programma della visita di domani a Napoli sono stati tolti tutti quegli elementi di spettacolarizzazione, orpelli, barocchi e canterini per lasciare al centro solo Gesù e il suo messaggio.
Il papa sarà forte su camorra, terra dei fuochi, disoccupazione, per allargare il cuore ad una speranza concreta, nuova, percorribile. Sarà bagno di folla, vuoi per i calorosi napoletani, vuoi perché la radice della comunione orizzontale è in Cielo e comincia sempre dall’unione con Dio. Ogni viaggio, anche questo, comincia con la visita a Pompei, dalla Madonna, come fa a Roma visitando Santa Maria Maggiore. Ogni volta prima di partire.
La sfida è cercare di capire come trasformare in vita le suggestioni proposte dall’Evangelii gaudium, dove alla fine del primo capitolo si legge: «Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti. Se qualcosa deve santamente inquietarci e preoccupare la nostra coscienza è che tanti nostri fratelli vivono senza la forza, la luce e la consolazione dell’amicizia con Gesù Cristo, senza una comunità di fede che li accolga, senza un orizzonte di senso e di vita».
E ancora: «Più della paura di sbagliare spero che ci muova la paura di rinchiuderci nelle strutture che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli, mentre fuori c’è una moltitudine affamata e Gesù ci ripete senza sosta: “Voi stessi date loro da mangiare”».