L’Arena per la pace

Una giornata di resistenza e di liberazione: ecco il senso del raduno di tanti cittadini e associazioni per la pace presso l’Arena di Verona il 25 aprile
Arena di Verona

È come un risvegliarsi, un ritrovarsi di molti che, dispersi in questo tempo di guerra e di conflitti, si radunano per riprendere il cammino insieme. Le parole chiave sono: "non violenza" e "disarmo". Due le citazioni, una di papa Francesco, «La guerra è il suicidio dell'umanità», e l’altra di Gandhi, «Solo la nonviolenza ci salverà».

Al centro, come conferma l’appello che ha dato vita alla manifestazione, ci sono la questione dell’acquisto di 90 cacciabombardieri, gli F35, per il costo complessivo di 14 miliardi, e l’intero progetto "Joint strike fighter", che costa 50 miliardi di euro.

Temi certamente delicatissimi, che rinviano al complesso problema del sistema di difesa europeo, che fa grande fatica a definirsi e a crescere. Quando Obama è venuto a Roma ed ha incontrato Renzi, parlando degli F35 non solo difendeva una visione politica, ma anche gli interessi concreti del sistema militare industriale americano. Verrebbe da dire che ha rappresentato un imponente conflitto di interessi, che pone in un angolo il sistema di difesa europeo, con la riduzione da 27 eserciti ad uno, con tecnologie e armamenti adeguati, con un risparmio che dovrebbe diventare efficienza e tecnologia comune.

Accanto al disarmo e alla non violenza, c’è anche la questione di una politica internazionale che sappia coniugare pace e giustizia, pace e riconciliazione, riconciliazione e perdono. In questo dobbiamo prendere atto che ad oggi manca una politica, che veda l’Italia protagonista in Europa, nel Mediterraneo e nel mondo, una protagonista coraggiosa e visionaria. Non basta disarmarci e disarmare. Non basta in Siria, non basta nel Medio Oriente, non basta nella drammatica questione israelo-palestinese, non basta nel lago Kivu, in Africa, non basta nel Centrafrica, non basta in Ucraina.

Dobbiamo costruire i ponti di una politica fondata sul dialogo, sulla riconciliazione e sul perdono. Dobbiamo abbattere i muri, costruiti dalle armi e moltiplicati dalle armi. La pace non è il frutto delle armi, ma della cultura dei diritti e del perdono. Il pacifismo italiano ha oscillato tra la retorica delle formule e delle manifestazioni e i tentativi di politiche estere collaterali e astute, che hanno prodotto più la pace come spettacolo, che la pace come magistero delle vittime. Siamo stati più spettatori che facitori di pace. Avremmo bisogno di esempi, di politici che sanno seminare pace anche nei luoghi più tormentati della storia, come in Africa. Il nostro Paese fa fatica a riconoscerli e anzi spesso li ignora, mentre il mondo dei popoli poveri li apprezza. Davvero un paradosso, amaro frutto di una politica come retorica.

Forse a Verona si dovrebbe avere il coraggio di riconoscere i molti errori di questi anni, il nostro silenzio e la nostra assenza  nella politica di cooperazione internazionale. È mancata la profezia e ognuno ha cercato la sopravvivenza della propria ong o della propria organizzazione, qualche volta in concorrenza e in polemica gli uni verso gli altri. Qualche volta qualcosa è stato fatto dal nostro Paese. Penso soprattutto al Libano, alla Tunisia, alla Palestina. Talora anche con risultati di rilievo, ma ci vuole ben altro: una maggiore costanza di risultati e una presenza effettiva nei processi più acuti di conflitto.

Alla vigilia della canonizzazione di papa Giovanni – il papa della Pacem in terris che diceva, proprio per la festa di san Marco, il 25 aprile 1963, che «la pace e il Vangelo sono le armi di san Marco e di tutti gli amici di Dio» – dovremmo imparare a riconoscere i segni dei tempi e guardare lontano. Senza questa sapienza della pace, che sa ascoltare il grido delle vittime di ogni guerra, tutto si costruisce sulla sabbia.

Papa Francesco con i suoi gesti di pace, la messa a Lampedusa per la tragedia degli immigrati, la preghiera a Roma per la Siria, la visita costante ai sofferenti e disabili, chiama tutti a comporre parole e gesti. Non basta l’attivismo dei gesti né la retorica delle parole. Ecco la nuova cultura della pace, che chiede gesti e parole a misura delle terre del mondo. Così ci hanno insegnato La Pira e Dossetti. Con la loro vita e con il loro magistero ci hanno testimoniato che la pace è il cuore di ogni politica.

Da Verona guardiamo ad Aleppo, a Gaza, a Beirut, a Tunisi, alla regione del Kivu, a Bangui, e allora comprenderemo meglio i limiti della nostra politica. Una politica  senza respiro, tutta ripiegata su casa nostra, incapace di cambiare l’Europa e cieca di fronte alla tragedia del Medio Oriente.

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