L’architetto che amava l’acqua
Ho appena finito di leggere Tumbas, un singolare libro di viaggio dello scrittore, poeta e drammaturgo olandese Cees Nooteboom. La particolarità di quest’opera sta nel trattarsi di una scorribanda nei cimiteri di mezzo mondo alla ricerca delle tombe di poeti e pensatori di ogni epoca. Lo scrittore vi fa le sue riflessioni, propone brani degli autori prediletti e aggiunge la foto del rispettivo sepolcro.
Questa lettura mi ha fatto rivivere un episodio personale dell’agosto di un anno lontano. In viaggio per un’intervista, capito nel Trevigiano dove l’autolinea mi scarica a San Vito, frazione di Altivole: un paese della pianura a sud di Asolo, all'incrocio tra importanti vie.
Siccome la corriera successiva passerà tra circa 5 ore, per occupare utilmente il lungo tempo d’attesa m’informo presso un bar su ciò che di notevole offre il sito da visitare. Senza esitare, il barista fa: «La tomba Brion!». Chiedo a mia volta cos’ha di particolare questa tomba per meritare una visita. E il barista: «È una tomba monumentale, la vera attrattiva di qui. L’ha fatta il grande architetto Carlo Scarpa per la famiglia di un industriale del posto. Sa che arriva di continuo gente anche dall’estero per vederla? Il cimitero non è lontano, in 10 minuti può arrivarci a piedi».
Confesso la mia ignoranza circa l’architetto Scarpa. Ad ogni modo seguo il consiglio e, acquistata una guida gentilmente fornita dal barista, m’avvio per la strada indicata, via Brioni, tra casette basse e ordinate colture. È tarda mattinata, il sole non troppo ardente e in giro si vede solo qualche anziano in bicicletta. Dopo un po’ si profila una lunga fila di cipressi: è il viale d’accesso al cimitero. Dietro il muro di cinta svetta, al di là di un campo di granturco, il campanile neoclassico della chiesa parrocchiale.
Varco il cancello di ferro e m’inoltro nel cimitero, in apparenza simile a tanti altri. Solo che, seguendo l’indicazione “Tomba Brion”, m’accorgo che un ampio settore di esso è tenuto a prato che collega diverse insolite architetture moderne. Come recinto, un muro inclinato oltre il quale si offre allo sguardo il dolce profilo dei colli asolani. Il sito sembra del tutto deserto (e i visitatori citati dal barista?); rompe il silenzio solo il canto monotono delle cicale. Imbocco quello che la mia guida definisce “propileo”: un corridoio forato da due finestre circolari sovrapposte, quasi occhi spalancati sul morbido manto erboso.
Da qui il percorso mi porta verso una costruzione dalla forma squadrata, una specie di grotta dove sono sepolti i familiari dei committenti; grotta che prende luce da una feritoia praticata nel culmine a spigolo. Qui incontro per la prima volta l’elemento acqua, che l’architetto ha largamente utilizzato con evidente funzione simbolica. Non per niente era originario di una città “sposata” con l’acqua come Venezia.
Non lontano m’attende il “tempietto”: vi arrivo da un sentiero pavimentato con lastre mobili di cemento, quasi tasti di un pianoforte (mentre ci cammino sopra, risuonano con tonfi per la verità piuttosto lugubri). Entro in un ambiente spoglio e raccolto dalle pareti rivestite di legno; in un angolo un altare. In questo suggestivo interno reso luminoso da varie aperture, creano giochi di luce colorata gli stessi riflessi prodotti dall’acqua che circonda la base di questa cappella.
Esco da una porticina di foggia particolare e, passando sopra dei parallelepipedi di cemento semisommersi, raggiungo un minuscolo isolotto ombreggiato da cipressi. Sempre più ciò che vado scoprendo mi ricorda certi giardini giapponesi visti in tv o in foto (non sono mai stato in Giappone). La sensazione di trovarmi all’interno di un giardino buddhista si fa ancora più viva visitando un’altra realizzazione di Scarpa: un vasto specchio d’acqua provvisto di piante lacustri con al centro un piccolo padiglione in legno e metallo. L’esile struttura – un luogo ideale per meditare – protegge una vegetazione nana. A pelo d’acqua appare una croce formata da pietre.
L’acqua del bacino è alimentata da una lunga canaletta che si conclude in un pozzetto circolare: è qui la sorgente. Seguendo questo rivolo che solca il prato, sono arrivato al cuore di questa parte del cimitero, là dove sopra un avvallamento s’inarca una struttura in cemento internamente decorata a mosaico: è il cosiddetto “arcosolio”, un prestito dalle catacombe cristiane. Esso copre le due arche marmoree dei coniugi Brion, inclinate l’una verso l’altra, quasi a simboleggiare l’amore che li ha legati in vita e che continua dopo la morte.
Dopo queste, ma in posizione appartata, m’imbatto nella tomba dello stesso architetto autore di questa elaborata opera, l’ultima e la più amata della sua carriera. Sul marmo che la sigilla, una specie di pozzetto mi richiama alla mente certi sepolcri pagani sui quali i vivi celebravano la loro comunione con i defunti facendo arrivare loro, attraverso un foro, parte delle libagioni.
Esco meditabondo da questo luogo ricco di simboli e per certi versi sconcertante. Non mi spiego però come tanta bellezza e pace, mettendo in moto anche la fantasia, mi abbia suggerito fin nei dettagli un racconto horror che però non scriverò mai e a cui non è il caso nemmeno di accennare. Finiscono qui i miei ricordi di un cimitero non cercato di proposito, a differenza di Cees Nooteboom.