L’archeologo e il ragazzo
La brezza marina piega finocchi e gerani selvatici, dimora di cicale assordanti. Bianco sullo sfondo turchino del cielo, un mulino si drizza in fondo alla laguna perlustrata da aironi in cerca di cibo. La mia visita virtuale a San Pantaleo ha lo scopo di cercare tra la vegetazione spontanea, tra i vigneti e i frutteti opulenti, i ruderi del più importante centro fenicio-punico della Sicilia: Mozia.
Sin dalla fine dell’VIII secolo a.C. la città occupava quasi per intero i quaranta ettari di quest’isoletta nello Stagnone di fronte a Marsala. Una antichissima strada subacquea di oltre un chilometro – opera mirabile di ingegneria – la congiunge alla terraferma: quando è bassa marea, è percorribile con carretti trainati da cavalli o a piedi, avendo l’acqua alla cintola.
«Ricca di magnifici edifici e di splendidi palazzi» divenne Mozia, al dire di Diodoro Siculo, grazie ai commerci per i quali i fenici percorsero su agili e leggere navicelle distanze incredibili. Mozia non seppe però opporsi all’invadenza ellenica nel territorio siculo: distrutta dai greci di Siracusa nel 397, venne subito dopo riconquistata dai cartaginesi; ma condannata per l’angustia stessa dello spazio a lenta decadenza, sopravvisse nella vicina Lilibeo (Marsala).
Preservata dal suo stesso isolamento, Mozia venne sottratta all’abbandono dei secoli soltanto agli inizi del ‘900, per merito di Joseph Whitaker, ornitologo inglese appassionato di archeologia, che questa briciola di terra acquistò per coltivarla a vigneti. Visito (sempre virtualmente) il piccolo Museo a lui dedicato, ansioso di rivedere quel “Giovane di Mozia” ammirato nel 1988 (questo sì, realmente) nella grande mostra veneziana sui fenici: una statua raffigurante con ogni probabilità il dio fenicio Melqart (l’Eracle greco), principale divinità della città insieme a Baal Hammon.
Greca è senz’ombra di dubbio la fattura dell’opera, ma fenicio-punica è la tunica sottile che ne delinea armoniosamente le forme sinuose. Davanti a un tale capolavoro, forse commissionato ad un artista greco di una delle tante colonie sicule al tempo in cui tra i due popoli correvano ancora buoni rapporti, si dimenticano le tristi immagini suscitate dalle tombe infantili del tofet e si contempla solo la bellezza risultante dal genio di culture diverse, quando esse felicemente s’incontrano.
Tra le recenti scoperte, la stele con iscrizione fenicia dove si legge «servo di Melqart», titolo attribuibile ad un esponente dell’alta aristocrazia, se non al sovrano stesso della città; il volto in terracotta della dea Astarte; i resti di una giovinetta sacrificata a Melqart o Baal per scongiurare la caduta di Mozia assediata dall’esercito siracusano. In qualche caso, le nuove scoperte hanno corretto i primi dati. Per esempio, quello che era stato interpretato come porticciolo artificiale o bacino di carenaggio, tuttora collegato al mare da un canale, il cosiddetto Kothon, si è rivelato una vasca adibita a funzioni di culto.
Fascino di Mozia, ora rinnovato dalla lettura di un romanzo – L’uomo del sogno, edito da Solferino – che l’autrice Marina Marazza ha pensato per un pubblico giovanile, ma che incanterà anche lettori adulti e appassionati di archeologia. Ne è protagonista, infatti, Heinrich Schliemann, lo scopritore di Troia e di Micene, di cui quest’anno ricorrono i duecento anni dalla nascita, e che a Mozia – episodio questo poco noto – eseguì nell’autunno del 1875 indagini presto interrotte, probabilmente per una difficoltà di rapporti col principe di Scalea, che all’epoca dirigeva la ricerca archeologica in Sicilia.
Senza entrare in merito a queste e altre controversie relative al personaggio (c’è chi ne fa anche un avventuriero alla Indiana Jones), l’autrice ha voluto rendere omaggio all’uomo che, dopo una giovinezza delle più svantaggiate, con tenacia seppe farsi da sé e, inseguendo i propri sogni, ottenere fama e ricchezza. Un uomo capace, nel racconto in questione, di risvegliare le capacità latenti in Saro, un ragazzo di San Pantaleo, orfano e ricco solo di abilità manuale nel lavorare il legno.
L’arrivo del Tedesco, come tutti chiamano Schliemann, porta una ventata di novità in questo luogo marginale, dove i pochi abitanti, ignari del suo splendido passato, conducono una esistenza grama, quasi di sopravvivenza, dediti alla pesca e al duro lavoro delle saline.
Le cose cambiano soprattutto per Saro, che ingaggiato con altri isolani nei primi sterri, entra in grande sintonia con “vossignoria”. Grazie all’amicizia con l’archeologo autodidatta, sigillata dal suo dono simbolico di una punta di freccia fenicia (la punta indica una direzione), il ragazzo matura e, superando gli sgarbi del cognato e le prepotenze del suo coetaneo Mommo, impara a scoprire anche in sé stesso tesori che aspettano solo di essere portati alla luce. Dopo il breve tirocinio come scavatore, infatti, il ragazzo prende in mano le redini del suo futuro e parte per Trapani ad imparare un mestiere. Trent’anni dopo lo ritroviamo nella sua isoletta con un lavoro e una propria famiglia.
Dai suoi giovani lettori l’autrice può ora congedarsi con l’incoraggiamento «ad avere gran fiducia nei propri talenti e nelle proprie possibilità e a tenere molto poco in considerazione le critiche, i bullismi, gli atteggiamenti sprezzanti e persecutori di chi per qualunque motivo vuol farci del male».