L’arancio murato

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Il cielo è senza una nube, il sole cocente, ma il vento… eh, il vento! È tipico di Pantelleria, quest’isola più vicina all’Africa che non alla Sicilia, l’essere spazzata di continuo da folate che fanno rabbrividire gli arbusti e squassano perfino le rigide pale dei fichidindia, impedendo ogni genere di coltivazioni che non siano protette con speciali accorgimenti. Rosario mi precede lungo un’erta sassosa, magnifico osservatorio sui pendii terrazzati giù giù fino all’azzurra distesa del mare. Tra noi è silenzio, rotto solo dal sibilo del vento e dal coro imperturbabile delle cicale. E intanto aspiro l’intenso aroma che sprigiona il finocchio selvatico. Poi compare la torre, tozza e leggermente rastremata verso l’alto. Con il suo aspetto primordiale richiama il nuraghe sardo, ma è costruita con pietre più piccole: un perfetto incastro, a secco, di frammenti lavici nerastri, chiazzato qua e là di licheni bianchi e di ciuffi verdi di cappero che il vento scompiglia. Giriamo attorno alla costruzione fino ad una porticina di legno incassata in un arco. L’amico armeggia un po’ col lucchetto, l’apre, mi invita ad entrare. È così bassa la porta che dobbiamo chinarci, quasi entrassimo in un luogo sacro. E davvero lo spettacolo che si presenta all’interno invita al rispetto. Tutto lo spazio di questo recinto scoperchiato è invaso da un enorme albero di arance, i cui rami si stendono fino a toccare le pareti o adagiarsi per terra con giravolte serpentine. Attraverso la cupola arborea la luce giunge attutita, e nel magico gioco di chiaroscuri che ne deriva, fra il fitto fogliame sembrano brillare di luce propria i globi dorati delle arance. Ce n’è una infinità, fra i rami come sul tappeto erboso dove, disfacendosi, vanno sprigionando un sentore dolciastro. Saranno anni, se non decenni, che quest’albero secolare non è sottoposto a potatura. Forse neppure i frutti vengono più colti (per un eccesso di rispetto?). Immobilmente maestoso mentre fuori ogni altra specie vegetale non ha pace per il vento, sembra dotato di una sorta di eternità. Come lo stesso anello che lo cinge in un abbraccio di pietra. Nessun altro sistema agricolo o architettura – spiega Rosario con orgoglio, davanti al mio stupore – richiede tanto lavoro per far crescere un singolo albero. In altri siti del Mediterraneo si è ovviato alle sfavorevoli condizioni ambientali con i più svariati accorgimenti per rendere possi- bili determinate colture. Ma nessuno ha raggiunto la perfezione dei “jardini” panteschi: anche per quanto concerne le tecniche di captazione, incanalamento e utilizzazione delle poche acque piovane dell’isola, convogliate al piede dell’albero. In effetti, a Pantelleria sarebbe impossibile coltivare agrumi, piante originarie delle regioni tropicali asiatiche a clima umido, dalle elevate necessità idriche. Grazie invece a questi manufatti in grado di aumentare, durante la stagione piovosa, la riserva idrica nel suolo, e di ridurre, nei mesi estivi, l’evaporazione dal suolo e la traspirazione fogliare, si assiste qui al quasi miracolo di una coltivazione “in asciutto”. Un ulteriore elemento che differenzia il “jardinu” pantesco da altre costruzioni circolari esistenti nell’area mediterranea – me lo fa notare l’amico – è il bordo superiore inclinato verso l’interno: lo si direbbe un tocco di eleganza; in realtà è un espediente per dare stabilità alla struttura e favorire la penetrazione dei raggi solari benefici per la pianta. Ma c’è dell’altro: per limitare al minimo nei periodi freddi gli sbalzi termici che avvengono all’esterno, sono quanto mai adatte le pietre vulcaniche di cui è composto questo recinto, la sua forma particolare e l’adozione di un’intercapedine nel doppio paramento del muro a secco, che permette un minimo di circolazione d’aria tra le pietre. Quanto alla necessaria stabilità del microclima all’interno, essa viene raggiunta grazie ad un equilibrio tra l’aumento del calore al centro del jardino e la zona d’ombra dovuta all’altezza e alla struttura circolare. Eppure stento a credere che un’opera così imponente, realizzata per custodire anche un solo agrume, sia giustificata unicamente dal desiderio di godere di frutti particolarmente pregiati. Accanto al motivo utilitaristico doveva essercene uno più spirituale; e lo spettacolo offerto da questa meraviglia della natura nella sua nicchia di pace me lo conferma: è il piacere estetico derivante dalla visione di un sempreverde che all’attrattiva di una forma armoniosa unisce il colore e il profumo dei fiori e dei frutti. Non per nulla sembra che l’idea di queste ingegnose strutture sia venuta agli arabi, di cui Pantelleria ha subìto l’influsso fino al Cinquecento. Un popolo che dal deserto ha saputo ricavare veri giardini, e gli stessi giardini delle dimore principesche ha amato e curato come un ritorno all’Eden primigenio. TUTTO SUI “JARDINI” Al jardinu, questa costruzione che insieme al dammuso (la casa rurale a volta) è tipica di Pantelleria, Francesco Brignone, docente di storia dell’arte, ha dedicato il primo e fino ad oggi unico studio esistente sull’argomento: U jardinu, per i tipi dell’editrice palermitana Flaccovio. Un testo agile, di piacevole lettura, corredato di splendide fotografie a colori e ricco di informazioni sulle modalità costruttive, la storia e la dislocazione nel territorio di questi singolari manufatti giustamente divenuti simbolo dell’isola.

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