L’Arabia Saudita, Joe Biden e i diritti umani

I recenti interventi del presidente Biden nei confronti dell’Arabia Saudita, alleato di sempre degli Usa, aprono una prospettiva interessante e nuova nel quadro non solo dei rapporti bilaterali, ma sui fondamenti politici del potere. A partire dai diritti umani. Le polemiche coinvolgono anche Renzi.  

Negli ultimi mesi si parla molto più del solito di Arabia Saudita e non solo come sinonimo di petrolio. Non è esattamente l’Arabia felix come la designavano gli antichi romani, ma l’Arabia saudita, cioè il Paese che con la fine dell’Impero ottomano, fra guerre locali e lotte dinastiche, è divenuto nel 1932 un regno di proprietà della famiglia al Saud. Una proprietà che impone il suo nome al Paese e agli stessi abitanti. Un regno fondato sul petrolio e su una concezione fondamentalista della fede islamica, il wahabismo (che deriva il suo nome da un teologo islamico vissuto nel XVIII secolo, parente acquisito degli al Saud).

Oltre al petrolio, o a causa del petrolio, la fortuna dell’Arabia Saudita si è mantenuta sull’alleanza di lunga durata con gli Stati Uniti: da quando il presidente Roosevelt, il 14 febbraio 1945, la stabilì con il re Ibn Saud. Da allora fino ad oggi quell’accordo è stato al centro degli equilibri geopolitici in Medio Oriente, con tutte le ripercussioni economiche, politiche e belliche connesse.

Dopo la stagione di idillio fra l’Amministrazione Trump e l’erede al trono saudita Mohammed bin Salman (MbS) segnata dall’appoggio statunitense alla leadership saudita, con spaventose vendite di armi e sostegno senza condizioni alle politiche anti-iraniane regionali, il nuovo presidente statunitense Joe Biden ha voluto dare segnali molto mirati ed espliciti di un cambio di rotta.

Senza peraltro mettere in discussione l’alleanza in essere da più di 75 anni, Biden a fine febbraio ha effettuato tre passaggi importanti nei confronti dei sauditi: ha chiuso il rubinetto delle forniture di armi offensive che l’Arabia usava per la guerra in Yemen e il relativo supporto tecnico (pur continuando a fornire armi difensive); ha telefonato personalmente a re Salman (non a MbS) per affermare il suo impegno come persona e come presidente in favore dei diritti umani, plaudendo al rilascio di Loujain al-Hathloul; ha fatto desecretare il rapporto dell’Fbi (che Trump aveva bloccato) sull’omicidio di Jamal Khashoggi, in cui si sostiene la responsabilità di MbS nell’ordine di esecuzione dello scrittore dissidente, attirato con un pretesto al consolato saudita di Istanbul, il 2 ottobre 2018, e il cui cadavere non è mai stato ritrovato.

Tutto questo avveniva alla fine di febbraio scorso, quando Matteo Renzi era putroppo già inciampato nella conferenza di Riad con MbS (del 28 gennaio) in cui si era allargato nel definire l’Arabia Saudita il centro di un possibile nuovo Rinascimento. E questo praticamente nelle stesse ore in cui il premier Conte revocava definitivamente la concessione italiana per la vendita all’Arabia saudita delle bombe prodotte in Sardegna dalla Rwm (e usate per colpire civili in Yemen): concessione approvata nel 2016 dal Governo Renzi.

Anche la vicenda di Loujain al-Hathloul, al cui rilascio dal carcere (avvenuto il 10 febbraio) plaude il presidente Biden, rivela o lascia intuire qualcosa del clima poco incline a considerare i diritti umani che vige in Arabia saudita, Rinascimento possibile o meno. L’Arabia che emerge dai racconti della trentunenne saudita (di Gedda) Loujain al-Hathloul è quella di un regime che condanna a 5 anni e 8 mesi (sentenza del 28 dicembre 2020) per terrorismo, spionaggio e un non meglio identificato attentato alla sicurezza nazionale una donna che protestava per il noto divieto alle donne di guidare un veicolo (l’unico Paese al mondo con questo divieto).

L’arresto avvenuto nei primi mesi del 2018, precede di qualche settimana la concessione della patente alle donne saudite. Fra l’arresto e il rilascio (ai domiciliari, beninteso, e con la condizionale) ci sono 1001 giorni di carcere che secondo Amnesty International sono stati contrassegnati almeno all’inizio da isolamento dalla famiglia e dal proprio legale, e poi da frustate e abusi di vario genere. Soprattutto quando l’imputata si è rifiutata di firmare una dichiarazione in cui affermava di non aver subito alcun abuso, ed ha iniziato uno sciopero della fame. Ma quella di Loujain al-Hathloul non è certo la sola vicenda di questo tipo. Ci sono altre donne liberate in questo periodo in Arabia, ma sono noti i nomi di altre che per gli stessi motivi non sono state affatto rilasciate.

Certo, le mosse liberalizzatrici dell’erede al trono saudita nei confronti delle donne (oltre alla patente, concessione di ingresso allo stadio o al cinema, accesso al servizio militare, ecc.) possono anche essere considerate dei segni di apertura. E forse neppure troppo facili da far digerire non solo alla casta dominante. Forse qualcosa si muove davvero? Mi piace pensare con Ugo Tramballi (su Il Sole 24 ore del 12 febbraio) che qualcosa si è mosso (non più di qualcosa) nella vicenda dei rapporti Usa-Arabia, perché: «Inaspettatamente, anche per molti dei suoi sostenitori, Joe Biden ha incominciato subito ad usare l’arma migliore, la più incontaminata dell’arsenale americano e dell’Occidente; del tutto ignorata nei quattro anni precedenti e non sempre apprezzata anche prima: i diritti umani».

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