L’Aquilone di Sengsoury

«Era “una che si nota”, una di quelle ragazze che affascinano e lasciano spiazzati». Il segreto di Senny.
Senny

Occorre non più di mezz’ora per raggiungere l’ospedale. Stasera c’è un’emozione che il silenzio rende eloquente: andiamo a trovare un’amica speciale, che muore. È il pensiero terribile che ci accompagna verso Arezzo. Lì Sengsoury è ricoverata ormai da giorni. Con l’arrivo di notizie sempre più allarmanti, Michele ed io abbiamo deciso di andare a portare una carezza a chi ci ha voluto bene. Eppure è difficile crederci, accettare questa morte che sembra oramai inevitabile. A 29 anni.

Era così Senny: giovane, bella, due occhi da far invidia a un cerbiatto. Nata a Loppiano, la cittadella dei Focolari, per una serie di circostanze che avevano portato la sua famiglia in Italia dal Laos alla fine degli anni Settanta, Sengsoury, che a nove anni aveva scelto di chiamarsi Francesca, cresce facendo suo l’ideale dell’unità. E da allora è rimasta sempre fedele a quanto da bambina aveva trovato. La naturale eleganza del suo portamento, unita ai tratti somatici così diversi dai nostri, una sensibilità raffinata, che le fa vivere ogni cosa all’estremo, fanno di lei “una che si nota”, una di quelle ragazze che affascinano e lasciano spiazzati.

 

 «Ha rovesciato quel cassetto con decisione, mettendo in comune, perdendoli, tutti i suoi cd, la sua musica, che per lei era sacra; questo fatto mi ha colpito, mettendo in luce il suo carattere determinato e radicale, mentre io non riuscivo nemmeno a pensare di rinunciare a quella giacca che mi aveva regalato mio padre». Maria Soledad Morell ha vissuto con Senny per un anno, in Argentina, e mi racconta di quel fatto che le aveva fatto capire l’importanza di dare tutto, anche sé stessa. «Senny d’altronde era così: pur cosciente dei suoi limiti, ha sempre cercato, anche nel fallimento, di sforzarsi a fare sempre un passo avanti per migliorarsi, per far contenta la persona che le stava accanto, mostrando quella perla del suo essere, che andava al di là di ogni cosa che viveva».

Una ragazza aperta, spontanea, che vive con Marco un fidanzamento intenso, che li realizza: «Era sicuramente un dono di Dio per me. Lo eravamo l’uno per l’altra – mi racconta lui con commozione –. Tutti questi anni sono stati così: improntati dalla spiritualità dell’unità che abbiamo condiviso, concretizzata nella normalità di tutti i giorni. Senny non ha mai rinnegato la sua umanità. Ma, sempre coerente con sé stessa, ha utilizzato per gli altri i talenti che Dio le aveva donato».

Quando fai le cose per amore, la fantasia non conosce limiti. Ed ecco quella canzone scritta per far contenta una persona, quel disegnare fumetti che facevano morir dal ridere, la stessa sua persona curata che esprimeva un rapporto con Dio complice, anche nelle circostanze più dolorose.

 

La perla preziosa che Senny teneva nascosta per donarsi agli altri? Era la coscienza della sua fragilità, che con la malattia sarebbe diventata più visibile; ma pure il suo essere fuori dagli schemi, cosa che forse poteva provocare qualche giudizio avventato. Ma il tempo, in certe occasioni, è il nostro miglior alleato: decanta e chiarisce le situazioni, rende giustizia alle persone per ciò che sono e sono state.

Anche per Senny è così. Come i vini migliori e più pregiati sono quelli che rimangono a invecchiare per anni, anche Senny ha avuto la sua maturazione, ha passato la sua “notte”, facendo però del suo dolore un punto di forza. Non era forte, era fragile, ma è per questo che abbiamo imparato a volerle bene, per quella sua libertà di amare ogni persona senza volerla cambiare.

 

Bisogna entrare in punta di piedi in rianimazione, perché ci sono altri pazienti. Per le sue condizioni, Senny non si deve emozionare troppo. Indossiamo i soprascarpe, la mascherina e il camice verde. Due porte, e Sengsoury è davanti a noi, con la sua corona di spine fatta di aghi e tubi che la tengono ancora in vita. La testa reclinata, quasi a cercare qualcuno per rompere quella solitudine che certe volte accompagna i momenti estremi.

Mi viene in mente un aquilone, ancora legato per un sottilissimo filo a noi, al tangibile e al terrestre, ma che sventola già in alto in attesa di volare. Ci vuole della “stoffa” per far sì che l’aquilone danzi e non si rompa, e a Sengsoury certamente non mancava. Di fronte a quel volto sofferente e bellissimo, la disubbidienza si fa necessità impellente, e un canto risuona in quella sala, ’O sole mio: Senny ama cantarla da sempre, e con Michele gliela regaliamo, sottovoce, per l’ultima volta. Una lacrima scende dai suoi occhi, la mano si stringe per un attimo, forse è ancora cosciente.

Mi ha fatto male questo viaggio. Eppure, alla fine, è più forte il desiderio di risvegliarsi e correre, un altro mattino ancora, con l’aquilone, e imparare, come ha fatto Senniy, a volare almeno un po’.

 

 

DAL SUO DIARIO

 

«Non so che farò, Gesù.
Non so cosa mi aspetta là fuori, dove andrò. (…) Non chiedo miglior regalo che stare con te ed amarti in ogni fratello. E scusami se non lo faccio sempre. Sono un disastro ma ti chiedo, se vuoi, di ricominciare un’altra volta. Assistimi, Gesù, prenditi cura di quest’anima che anche se non è così pura tu sai che grazie a te lo è. Dammi questa grazia: sul serio, ne ho bisogno».

(9-11-2002)

 

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