L’Aquila, un anno dopo

Alloggi antisismici sono il confortevole presente. Ma i terremotati non vedono segnali di futuro.
Terremoto Abruzzo

Sembrava stesse aspettandoci da tempo. Incurante della neve che scendeva e delle folate di vento. Unica rimasta della sua gente qui nel centro devastato di Onna. A rappresentare i 41 morti e i 300 sopravvissuti, sistemati ora nelle case di legno a un piano nel prato poco distante.

Il viso tristissimo, lo sguardo di lacerante dolore. Il busto di legno di donna sta addossato alla facciata puntellata da grosse travi della chiesa crollata per quasi due terzi. Onna è il paese che ha pagato in percentuale il tributo più alto alla tragedia del sisma. Quel volto femminile urla una supplica: non andatevene, aiutateci a ricostruire il paese qui dov’era e com’era.

È il desiderio degli abitanti di Onna. È l’esigenza delle popolazioni degli altri paesi. Paganica è poco oltre la vicina statale 17 est. I due centri si trovano proprio sopra la faglia, la zona di frattura della crosta terrestre, da cui s’è sprigionata la tragedia con oltre 300 morti, un anno fa. Vicino al campo delle bocce, due edifici color giallo canarino con otto e dodici appartamenti sono ancora in piedi. E ancora a terra stanno i parapetti venuti giù con la scossa delle 3.32 del 6 aprile.

 

Le famiglie del caseggiato sono state sistemate nelle nuove costruzioni antisismiche. La nuova area si chiama Paganica2, ovvero 25 edifici di 24 appartamenti ciascuno.

Pia Pasqua è alloggiata qui dal 18 dicembre. Abitava in paese e per cinquant’anni ha gestito un bar tabacchi. Da un anno è un cumulo di macerie. Ha così venduto le licenze. La sua odissea è passata dalla tendopoli del campo di rugby per un mese e per quella del campo 4 sino a novembre, quando ha affittato un container a 480 euro mensili («spero nel rimborso promesso»).

«No, non è come allora – precisa –. Tutto si sta degradando. Le macerie impediscono qualsiasi intervento e le scosse continuano a scuotere gli edifici e noi». Già, le scosse. Anche la notte precedente è arrivata una di 2,6 gradi, ma si può dormire tranquilli. «Ci sentiamo sicuri – riconosce Olga Navarra, vicina di casa –, anche se l’effetto, in queste strutture antisismiche, è quello della barca in mare, tanto che a ogni scossa c’è un prolungato ondeggiamento».

 

Le nuove abitazioni nelle 18 zone satellite – le cosiddette new town (nuove città) – de L’Aquila sono accoglienti, spaziose, ben arredate e con dotazioni di qualità dalle lenzuola ai bicchieri, agli elettrodomestici. Si parla di un costo di 2.400 euro a metro quadrato. «Quasi da metterci a disagio», ammette Patrizia Peroni, insegnante di educazione fisica. La sua casa, nel centro del capoluogo, il terremoto l’ha fatta scivolare verso valle. Da allora ha abitato in un albergo a Giulianova, costa adriatica, vivendo la precarietà anche da pendolare con la scuola.

A fine febbraio le è stato assegnato un alloggio, qui a Sassa, 6 chilometri fuori città, direzione Rieti. «Confortevole la casa, ma è doloroso rientrare. In queste new town non ci si ritrova. E non è solo perché mancano i negozi e per ogni cosa occorre prendere l’auto. Il problema è che non vedo le condizioni per una ricostruzione del tessuto sociale».

Ecco il punto. Adesso che stanno tornando ad abitare più o meno vicino ai luoghi quotidiani di un tempo (anche se oltre quattro mila sono ancora negli alberghi), i terremotati avvertono con maggiore realismo che il ritorno alla normalità sarà una faccenda complicata e lunga.

La figlia Alice è amareggiata: «Ci hanno detto che ci vorranno dieci anni per risistemare il centro, ma n’è passato già uno e non si vedono progetti, non si definiscono scadenze. Se non si ridà futuro al centro storico, la città muore e noi con lei. Per questo motivo ogni domenica siamo lì in centro con le carriole». Da un mese infatti il cuore lacerato (e deserto) della città (la zona rossa) è invaso dagli abitanti armati di carriole, secchi e pale per liberarlo dalle macerie e spingere istituzioni e autorità ad affrettare i tempi della ricostruzione.

 

Nel travagliato anno post-sisma, anche la tenuta psicologica di tanti è stata logorata. Ci sono stati suicidi e tentativi di suicidio. La forzata convivenza nelle tendopoli ha provocato conflittualità, crisi coniugali e numerose separazioni. Depressioni e ansia acuta affliggono ancora, fa presente Giuseppe Riccio, dirigente medico del centro di salute mentale, che continua a seguire i terremotati evacuati sulla costa teramana. Ma da qualche mese si registra un fenomeno nuovo. «Disturbi depressivi – ci riferisce – stanno manifestandosi in persone che avevano sinora reagito con forza al trauma del sisma e alla successiva instabilità. Sono uomini e donne tra i 45 e i 55 anni che ora non vedono un progetto di futuro per la famiglia, il lavoro, la città».

Da soli, l’impresa è impossibile. La reazione compatta e pacifica della gente aquilana, che con le carriole si riappropria dei quartieri tenuti su dalle stampelle, è un salutare segnale di fiducia, di civiltà e di partecipazione.

 

 

 

Un problema grave di futuro

 

Giustino Parisse, responsabile della redazione aquilana de Il Centro, è una voce ascoltata in città. Anche per la tragedia vissuta.

 

Un anno dopo il sisma. Qual è il punto più critico?

«Adesso è l’incertezza sui soldi e sui tempi della ricostruzione. Il presidente della Regione ha presentato le linee guida per la ricostruzione, ma l’ha fatto a quasi un anno dal terremoto. Sulla carta sembra siano disponibili 6-7 miliardi di euro, però è un mistero sapere dove stiano».

 

Sugli alloggi l’ombra di un comitato d’affari?

«Mai generalizzare. Ci sono stati dei casi, ben individuati, che hanno avuto complicità probabilmente anche ai vertici, su cui la magistratura sta indagando. Ma la Protezione civile ha fatto molto e ha fatto in modo che tanti come me stessero già dentro una casetta di legno. Anche se c’è stato un errore di comunicazione: “Vi ridiamo le case e state a posto”».

 

Questo è il vero problema?

«Queste case sono provvisorie. Io mi sento stretto in questa casetta qui a Onna. Ma non perché è piccola. Il fatto è che non è casa mia, anche se sono al caldo e ho tutto».

 

E allora?

«Si è puntato tutto sull’emergenza, tutto sul ridare un tetto alle persone, senza pensare al futuro di questa città».

 

Da dove passa il futuro?

«Il futuro de L’Aquila è il centro storico, ancora chiuso. Sono i centri distrutti dei paesi, in cui non è stato rimosso un mattone. E poi il lavoro che manca, l’università da valorizzare, l’ospedale che arranca. Qui si viveva molto di rendita per la presenza di 30 mila universitari».

 

Le dimostrazioni con le carriole. La gente si sta organizzando. Carriole rosse per qualcuno.

«Nient’affatto. Alla manifestazione d’inizio marzo c’erano 6 mila persone. E siccome in città ci sono nato e ci vivo da 50 anni, le persone le conosco. Posso assicurare che di rivoluzionari non ce n’è uno. La manifestazione ha solo il senso di voler riconquistare la città. Peccato che nei blog compaiano commenti del tipo: “Ma guarda questi aquilani, gli abbiamo dato le case e si stanno pure a lamentare”. Per capire la nostra situazione bisogna venire qua».

 

Si avvicina la data. Si rinnoverà per lei un dolore immenso.

«Rinnovare, no. Per me il dolore c’è ogni giorno. Stiamo parlando di futuro, ma per me non si potrà ricostruire nulla. Potrò rifarmi una casa, ma questo non sana nulla. La vita vera, quella per cui avevo lottato e sognato, è finita il 6 aprile. Stavo a fianco delle camere dei miei figli: io e mia moglie siamo rimasti vivi, Domenico, 18 anni, Maria Paola, 16, sono morti. Così come mio padre».

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