L’Aquila e il coraggio di rinascere
C’era tanta polvere. Ovunque. Nel buio della notte sembrava ricoprire tutto. Per i sopravvissuti del terremoto che il 6 aprile 2009 devastò L’Aquila e le sue frazioni quella funesta coltre bianca è un ricordo indelebile e una realtà quotidiana. C’è ancora polvere nel centro storico dove fervono i lavori: operai che sistemano, gru che sollevano, automezzi che spostano. La città vuole risorgere dalle macerie, ma molto ancora resta da fare. Servono fondi per i lavori, i commercianti sollecitano incentivi e sostegno fiscale, proprietari e inquilini devono tornare nelle case ricostruite, ma alcuni negozi hanno riaperto, nei parcheggi ci sono le auto, mentre ragazzi e bambini con il loro vociare restituiscono normalità alla vita quotidiana.
Tornare a casa
Periferia Est, siamo ad Onna, la frazione declassata a “località” che nel sisma perse 40 abitanti. Lungo la strada tanti negozi, qualcuno in roulotte o prefabbricati, e le case ricostruite, alcune con improbabili colori sgargianti che cozzano con i colori pastello del paesaggio. Nel centro Casa Onna ci accolgono le ragazze del servizio civile. Tutto intorno brulicano gli operai, affaccendati nelle nuove case con i pannelli solari sul tetto. Entriamo in una delle poche abitazioni completate. Una gentile signora di 75 anni ci fa accomodare nel soggiorno scusandosi: «Ancora non lo abbiamo aggiustato». Hanno dovuto rifare gli allacci, ora servono mobili e arredi. Lei e la sua famiglia si salvarono perché il marito aveva sistemato delle reti sotto il tetto, che così non era crollato. Dopo le scosse, si ritrovarono al piano terra. Pochi minuti che li salvarono: se fossero usciti subito, sarebbero stati travolti dalle case che si sbriciolavano. «Sono fortunata – ammette l’anziana –, ma in casa è cambiato tutto, anche la disposizione degli spazi. Prima dalla finestra vedevo le mie montagne, adesso se guardo fuori vedo solo muri».
Raggiungiamo i Map, i moduli abitativi provvisori da 10 anni. Intenta a lavare gli spinaci, nel bel giardinetto che cura con amore c’è la signora Dora. Dal terremoto, con suo marito, si salvarono per miracolo. «Un grosso armadio cadde sul letto, lasciandoci pochi centimetri per scappare. Anche la mia vicina dormiva, ma quando cadde l’armadio rimase schiacciata». Il marito di Dora è morto l’anno scorso.
«Chissà se riuscirò a vedere la casa ricostruita. Qui siamo sempre soli. Prima eravamo una comunità unita, adesso, invece, ognuno sta seduto all’ingresso del Map, guarda gli altri e non si ferma più a parlare. Non è vita. È sopravvivenza».
Riaprono i negozi
Da Onna verso il centro, passiamo vicino alle palazzine antisismiche decorate con grandi murales. Superiamo Porta Napoli ed entriamo in centro. In via XX Settembre il tempo sembra fermarsi. Qui sorgeva la casa dello studente, che crollò uccidendo 7 ragazzi e uno dei custodi. Una ferita ancora aperta, nonostante le condanne inflitte ai tecnici che avevano restaurato l’edificio e al presidente della commissione collaudo. Nel centro storico c’è traffico, ma i residenti sono pochi. «Anche 10 anni fa era così – spiega il libraio Roberto Maccarrone –. Il centro storico era abitato dagli studenti, che erano tornati a casa per la domenica delle Palme. Se non fosse stato così, le morti sarebbero potute essere più numerose». Impegnato nel lancio di una nuova libreria in piazza Duomo, Maccarrone afferma sorridente: «Sono folle, lo so, ma voglio restituire qualcosa di quello che la città mi ha dato». Anche Marzia, combattiva artigiana, è ottimista. Lavora tutti i giorni nella sua bottega in piazza Duomo, mentre altri aprono solo nei weekend. Negli ultimi tempi, spiega, i lavori sono un po’ rallentati. Anche per questo a metà marzo si era dimesso il sindaco Pierluigi Biondi, lamentando il mancato stanziamento di 10 milioni di euro. «I commercianti – ci spiega Marzia – sono demoralizzati. I negozi stanno riaprendo, ma sono soprattutto bar e ristoranti. Non siamo stati aiutati, solo adesso che rischiamo la chiusura parlano di agevolazioni». Annarita Attardi, rappresentante dell’Unicef, ci parla della grande solidarietà che non è mai venuta meno, anzi… Adesso, assicura, si può sperare in un futuro migliore. «I sottoservizi sono stati rifatti: quando finiranno i lavori, la città sarà un gioiellino, più bella ed efficiente». Adesso dovrebbero tornare gli studenti. Sono tanti quelli che, dall’Aquila, sono andati a studiare fuori.
Sono invece rimasti, spiega sorridendo Luca, 23 anni, della frazione di Tempera, i giovani che volevano lavorare. Dieci anni fa era un ragazzino, ma ricorda bene le case crollate e non ancora ricostruite, le corse, le porte bloccate che non volevano aprirsi. «Se si è disposti a sporcarsi le mani – afferma –, adesso si può vivere all’Aquila». Al lavoro accanto a Luca, in un cantiere per gli allacci idrici, c’è Stefano, 36 anni, di Paganica. Vive con la famiglia «in un appartamento del Progetto Case di Berlusconi». I nomi dell’ex premier e dell’ex capo della Protezione civile Bertolaso ricorrono nei discorsi degli aquilani. Ricordano l’acqua subito erogata, le case pronte – nonostante tutto – in pochi mesi e «Bertolaso con gli stivaloni che controllava i lavori». I discorsi si spostano spesso sul terremoto del Centro Italia del 2016: «Qui tutto sommato abbiamo una casa. Invece, ad Amatrice…».
Un cantiere ancora aperto
Percorriamo il centro storico e arriviamo in fondo a via Bafile. Qui gli operai dai mille accenti non sono ancora arrivati. Secondo i dati dell’Ufficio per la ricostruzione, le pratiche istruite superano il 70% per l’edilizia privata, mentre gli importi erogati per la ricostruzione pubblica si fermano al 60%. E se i cantieri chiusi sono oltre 8 mila, più di 1.500 non sono stati nemmeno allestiti, mentre quelli aperti o fermi sono oltre 600. Ci sono poi evidenti ritardi nel recupero delle chiese, anche di grande rilevanza storica ed ecclesiale come il duomo. Tuttavia, come ha affermato nelle sue omelie l’arcivescovo metropolita dell’Aquila, il cardinale Giuseppe Petrocchi, non bisogna mettere in secondo piano le necessità delle persone e della comunità. Il terremoto ha prodotto danni gravi nell’anima della gente, che ha perso i luoghi abituali della vita sociale ed è stata catapultata in modo improvviso e traumatico in situazioni precarie. Chi ha visto morire una persona cara o si è trovato in pericolo di vita sperimenta tensioni che continuano per decenni. E purtroppo chi interviene talvolta non ha le necessarie capacità spirituali, psicologiche e sociali per sostenere chi ha vissuto un tale dramma. Come non ha mancato di sottolineare il cardinale, sempre molto vicino alla comunità, le motivazioni per andare avanti devono essere trovate insieme, senza dimenticare che anche nel dolore c’è sempre una misteriosa presenza divina, che è l’amore. Molto dunque resta da fare, ma L’Aquila è in cammino e ce la farà, conservando nel cuore le 309 vittime del terremoto, che continuerà a chiamare, una per una, ancora per nome.