Lapis specularis, duro come il marmo, trasparente come il vetro
La prima parte del nostro itinerario ci trasporta idealmente in Spagna, nel cuore della regione autonoma di Castiglia-La Mancia. Immaginiamo di sorvolare la meseta, questo immenso altopiano desertico che occupa gran parte del territorio nazionale: una pianura ondulata, verdeggiante là dove viene coltivata e rossiccia invece nelle zone incolte.
Nei dintorni del piccolo comune di Saelices, in provincia di Cuenca, dal nostro osservatorio superiore adocchiamo – isolata in mezzo a un dolce paesaggio collinare – la planimetria di una tipica città romana con foro, portici, edifici pubblici e religiosi, un teatro e un anfiteatro; è riconoscibile anche parte della cinta muraria, mentre al periodo visigoto risalgono la necropoli e le rovine di una basilica cristiana.
Siamo sopra uno dei più importanti siti archeologici della Spagna, Segóbriga, fondata nel suo nucleo originario da popolazioni celtiche stanziatesi nella Penisola iberica, poi sottomesse a Roma a partire dal II secolo a. C., ma già in età augustea fortemente assimilate alla nuova cultura latina.
Segòbriga, nome di origine celtiberica che significa “città della vittoria”, divenne tra il I e II secolo d. C. un importante municipio romano della provincia Tarraconense, come attestano i resti del suo passato splendore sopravvissuti alle spoliazioni successive alla caduta dell’Impero e alla conquista islamica. Vitale, per un sito come questo circondato dal deserto, fu la costruzione di un acquedotto, le cui acque alimentavano all’interno dell’abitato cisterne, canali e fontane, nonché un bacino con al centro un altare dedicato ad Airon, il dio celtìbero della vita e della morte.
Suppergiù delle dimensioni di Ercolano e con una popolazione di circa 5000 abitanti, la città è stata riportata alla luce per appena il 10 per cento della sua superficie; ciò nonostante il percorso archeologico con le ricostruzioni virtuali dei vari monumenti illustra esaurientemente la vita e la prosperità di quella che fu capitale amministrativa di un vasto territorio, snodo di importanti vie di comunicazione e fiorente centro agricolo, e ancor più minerario.
Proveniva infatti dalle circostanti cave (oltre 200 quelle finora individuate) un minerale molto ricercato nel mondo romano: la cosiddetta lapis specularis, ossia gesso cristallizzato che ha la proprietà di sfogliarsi in sottili lastre traslucide da utilizzare come economica alternativa al vetro di finestre in case signorili e in edifici termali o come componente degli stucchi decorativi. Ne sono traccia, in certe domus di Pompei ed Ercolano, le grate metalliche e gli incassi per i telai lignei sui quali esse venivano montate per chiudere finestre, lucernari o peristili. Usata anche in medicina e nella cosmesi femminile, questa pietra – sminuzzata e mescolata alla sabbia dei circhi e degli anfiteatri – serviva infine ad accrescere con la sua brillantezza la spettacolarità delle gare sportive e dei ludi gladiatori.
Nella sua Storia Naturale Plinio il Vecchio, che aveva visitato le cave spagnole, nomina espressamente Segòbriga e le sue miniere famose in tutto il bacino del Mediterraneo per l’abbondanza e l’alta qualità di questo minerale «duro come il marmo, trasparente come il vetro», indicando le principali aree di estrazione: la Spagna Citeriore, Cipro, la Cappadocia, la Sicilia e la zona attorno Bologna, che sfruttò questo minerale anche dopo l’epoca romana, come testimoniano le lastre delle finestre di un suo gioiello romanico: la basilica di Santo Stefano.
E dato che il celebre naturalista le ha citate, concludiamo trasferendoci in Italia, alla scoperta delle antiche cave romagnole, di cui una quindicina sono state identificate solo in anni recenti nei pressi della cima del Monte Mauro, non lontano da Bologna.
Siamo nel Parco regionale della Vena del Gesso Romagnola, che si estende dalla valle del Sillaro sino a Brisighella, in provincia di Ravenna. Nel contemplare i dolci profili del paesaggio collinare si è colpiti dalla brusca interruzione di una dorsale grigio-argentea: corrisponde al più imponente affioramento gessoso presente nella Penisola, lungo 25 chilometri e con una larghezza media di un chilometro e mezzo. L’area, morfologicamente carsica, comprende doline, valli cieche e numerosissime cavità ipogee come la Grotta della Lucerna, così detta dal ritrovamento in essa di alcune lucerne di età romana a testimoniare l’attività estrattiva che vi si svolgeva; o come la Grotta Risorgente del Rio Basino, dove è possibile ammirare vere e proprie “vene” di gesso traslucido lunghe anche decine di metri.
Uno degli angoli più suggestivi del Parco è il Centro Visite Ca’ Carnè, con sede in una casa rurale dotata di un podere di 20 ettari di superficie, in parte boschivo e in parte a prato, che oltre a proporsi come obiettivo prioritario la tutela e la divulgazione naturalistica di quest’area ospita un piccolo museo dedicato alla sua fauna. Il ritrovamento, in questa stessa località, di un edificio del I secolo d.C. la cui struttura portante era realizzata con pali in legno mentre i muri erano in mattoni di argilla cruda e in graticcio di legno spalmato di argilla acquista particolare rilevanza proprio in considerazione della vicina cava.
A lungo poco considerata nel mondo scientifico, tant’è che raramente i frammenti trovavano posto nelle vetrine dei musei, la lapis specularis sta attirando da un ventennio in qua l’interesse crescente degli studiosi, dando origine a convegni internazionali, a mostre e a pubblicazioni che ne illustrano le caratteristiche e l’uso. Si moltiplicano anche le visite alle antiche cave ed ai materiali archeologici rinvenuti in alcune di esse. Sembra che la “selenite”, come anche viene chiamata questa particolare pietra per la sua proprietà di trasmettere una luce blanda, simile a quella lunare, stia conoscendo una nuova meritata fama.