L’apertura del cuore di Francesco
Ripensando al viaggio di papa Francesco in Bangladesh, il momento che resterà nella memoria collettiva e che verrà consegnato alla storia saranno senza dubbio i minuti conclusivi dell’incontro interreligioso, dedicati al commovente abbraccio dei rappresentanti dell’etnia Rohingya. Quelle 16 persone, anziani e bambini, adulti e giovani, che si sono trovati davanti al papa ed hanno potuto parlare con lui, hanno rappresentato, come avrebbe detto Bergoglio alla conclusione, il volto di Dio fra noi oggi. Ma anche il volto di quella fetta dell’umanità – e sono circa 250 milioni – che hanno dovuto lasciare la loro terra. I migranti attualmente costituiscono, infatti, una popolazione di quattro volte superiore a quella italiana.
L’opinione pubblica mondiale, gli analisti, i giornalisti aspettavano il momento in cui il papa avrebbe toccato l’argomento Rohingya, l’aspetto senza dubbio più scottantedi questo viaggio in Myanmar e in Bangladesh, due Paesi che per motivi opposti sono coinvolti nel dramma di questo popolo. Pur avendo fatto riferimenti sempre più chiari alla questione, sia in Myanmar che, soprattutto, in Bangladesh, Bergoglio non aveva ancora pronunciato quella parola che sembrava quasi proibita.
Nel corso del suo saluto al Presidente del Bangladesh, si era spinto fino a nominare lo Stato del Rakhine da dove i profughi di questa etnia provengono e, in quel momento, aveva colto l’occasione per ringraziare il Paese del sub-continente – uno di quelli con indice di povertà più alto al mondo – per
«lo spirito di generosità e di solidarietà che si è manifestato molto chiaramente nel suo slancio umanitario a favore dei rifugiati affluiti in massa» da quell’angolo del vicino Myanmar. Il papa ha, quindi, avuto parole calde di riconoscenza per il popolo bengalese capace di un atto di accoglienza «fatto con non poco sacrificio» che si è realizzato «sotto gli occhi del mondo intero».
Il secondo giorno della permanenza del papa a Dhaka ha offerto la possibilità dell’incontro tanto atteso, svoltosi nel silenzio assoluto dei presenti e in quei colloqui sommessi – grazie all’interprete – fra alcuni Rohingya ed il papa venuto da Roma. Un uomo, Bergoglio, capace di chiedere perdono a nome del mondo. «A nome di tutti, di quelli che vi perseguitano, di quelli che hanno fatto del male, soprattutto per l’indifferenza del mondo, vi chiedo perdono. Perdono». E, capace, poi, di chiedere a questa gente di accettare questa richiesta di perdono. «Tanti di voi mi avete detto del cuore grande del Bangladesh che vi ha accolto. Adesso io mi appello al vostro cuore grande perché sia capace di darci il perdono che chiediamo».
Ma il valore di questa seconda tappa di papa Francesco nel suo viaggio asiatico è da individuare anche nella dimensione della “cultura del dialogo” di cui si fa portatore, attore e protagonista. È lui stesso, con la sua presenza e il suo stile di comportamento e di parola che ispira i cristiani – soprattutto dove sono una minuscola minoranza –, a lavorare con tutti per favorire la pace. Il suo incontro con i leaders di diverse denominazioni cristiane e i rappresentanti delle religioni presenti in Bangladesh è stato ricco di spunti, oltre ad aver registrato una presenza di migliaia di persone. Èstato ricordato che il Bangladesh – nelle parole del Card. Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso – è un esempio per il mondo intero che il dialogo fra persone di diverse fedi è realizzabile.
La scena offerta dal momento di condivisione e preghiera da parte di musulmani, indù, buddhisti, anglicani e cattolici è stata senza dubbio emblematica. Il Bengala è, infatti, terra di tolleranza e di armonia, entrambe dettate dalla natura dell’ambiente e da quella degli uomini e donne che vi abitano. Gli ultimi anni, tuttavia, hanno visto una radicalizzazione di posizioni religiose in un Paese che rappresenta la quarta maggior concentrazione di musulmani al mondo, dopo Indonesia, India e Pakistan. Non sono mancati atti terroristi, morti, anche stranieri.
Tutti i leaders religiosi intervenuti hanno sottolineato come le rispettive fedi parlino di armonia e comprensione fra i credenti e si riferiscano all’umanità come ad una unica famiglia. A questo proposito il Papa ha incoraggiato a proseguire sulla strada dello sforzo a costruire una “cultura del dialogo”. Per questo, la naturale tolleranza bengalese non è sufficiente.
Impegnarsi nel cammino del dialogo, ha chiarito Bergoglio «stimola a tendere la mano all’altro in atteggiamento di reciproca fiducia e comprensione, per costruire un’unità che comprenda la diversità non come minaccia, ma come potenziale fonte di arricchimento e crescita». Ma tutto questo sarà possibile solo se ci si impegna a «coltivare una apertura del cuore, in modo da vedere gli altri come una via, non come un ostacolo».
Proprio in questo Paese a larghissima maggioranza musulmana (88%), ma con minoranze significative – indù circa il 9% – e piccole presenze di altre – buddhisti e cristiani 1% -, il papa ha voluto “esplorare” cosa significhi avere una “apertura del cuore”. E lo ha fatto, come ormai ci ha abituato, con tre immagini significative: la porta, la scala ed il cammino.
Il dialogo, ha detto, è una porta perché non è e non potrà mai essere una teoria astratta. È, piuttosto, un’esperienza vissuta. Infatti, oltre lo scambio delle idee è necessario sperimentare un vero dialogo di vita, che richiede impegno a condividere con l’altro «le nostre diverse identità religiose e culturali, ma sempre con umiltà, onestà e rispetto».
Ma dialogare con cuore aperto ci ricorda anche l’immagine di una scala che raggiunge l’Assoluto. «Ci rendiamo conto della necessità di purificare i nostri cuori, in modo da poter vedere tutte le cose nella loro prospettiva più vera. Ad ogni passo la nostra visuale diventerà più chiara e riceveremo la forza per perseverare nell’impegno di comprendere e valorizzare gli altri e il loro punto di vista».
In terzo luogo, l’apertura del cuore, ha detto Francesco, è anche «un cammino che conduce a ricercare la bontà, la giustizia e la solidarietà. Conduce a cercare il bene del nostro prossimo».
Non possiamo certo ignorare il fatto che papa Francesco, in questi giorni in Myanmar e in Bangladesh, abbia offerto un esempio concreto e visibile di apertura del cuore, accogliendo tutti, dai grandi a coloro che sono considerati ultimi e che pure, ha affermato quasi con tono di vergogna, portano il nome di Dio sulla terra oggi. L’apertura del suo cuore ha toccato anche coloro che non appartengono alla tradizione religiosa del cristianesimo. Le interviste a persone locali, spesso buddhiste in Myanmar e musulmani in Bangladesh, riportate nei telegiornali lasciano trasparire come la gente sia rimasta toccata da quest’uomo venuto da Roma, massimo rappresentante di una religione, in passato spesso identificata con il colonialismo e comunque aliena alle culture asiatiche. Come i suoi predecessori, ma con uno stile suo ormai inconfondibile e, pure, sempre carico di sorprese, Bergoglio sta aprendo il cuore di centinaia di migliaia di persone ad ogni latitudine.