L’anima del legno

A Folgarida, in Val di Sole. Scolpire  per il bisogno di dare dignità e bellezza anche agli oggetti più umili che ci circondano
val di sole

Folgarida, ovvero “luogo delle felci” dal latino filicaretum (questo il significato del toponimo) è una località turistica e frazione del comune di Dimaro, in provincia di Trento. Situata a circa 1300 metri di altitudine in Val di Sole, nelle Dolomiti di Brenta, è nata nel 1965 come località sciistica. Ed è in crescente sviluppo, come dimostrano i numerosi alberghi e chalet sorti negli ultimi anni.

Nel Trentino, si sa, è fiorente l’artigianato del legno e pullulano scultori che spesso si rivelano artisti di livello le cui opere sono apprezzate in tutto il mondo. Non so però quante possano dirsi originali come quelle di Lorenzo Lupino, un sardo di Sassari, che la sua attività nel settore turistico ha portato a qui a Folgarida, dove si occupa della reception in un albergo. «È questo il mio lavoro primario. Scolpire invece – mi spiega mostrandomi un suo lavoro – dipende dall’ispirazione del momento e dalle pause di libertà. Allora il tempo mi vola via perché lo faccio con passione; il fatto poi che questa attività artistica sia anche fonte di guadagno passa in secondo piano di fronte alla soddisfazione di poter far felice qualcuno al quale una mia scultura piace, sia che la venda o la regali».

Accennavo prima all’originalità delle sue opere. Bene. Un pantalone appeso ad una gruccia, un borsalino, un pullover e una camicia ben piegati, una borsetta floscia sono elementi di abbigliamento che il più delle volte usiamo senza farci troppo caso. E se invece di stoffa, feltro, lana o cuoio, questi stessi oggetti li vedessimo realizzati in un tenero legno capace di dare l’illusione della morbidezza? Ne rimarremmo quanto meno sorpresi, ammirati dall’abilità dell’artefice, dalla minuzia del dettaglio, da qualcosa insomma che rende “nuovi”, come se li vedessimo con altri occhi, questi compagni della nostra quotidianità.

È ciò che succede immancabilmente davanti alle sculture di Lupino, che rappresentano proprio gli oggetti citati. Ma come ha iniziato un filone artistico del genere questo sardo trapiantato sulle Dolomiti?

«Disegnare – soprattutto a china – è una mia vecchia passione coltivata fin da ragazzo come autodidatta. Amo i chiaroscuri, i contrasti di luci e ombre, e quand’ero in Sardegna ho anche collaborato all’illustrazione di qualche libro. Qui in Trentino però, preso dal mio lavoro, non avevo più il tempo di dedicarmi al disegno. Questa è una terra ricca di boschi e quindi di legno: lo si trova nella struttura e nell’arredo delle case come pure negli oggetti di artigianato. Quando un giorno mi è capitato tra le mani un pezzo di questo materiale che inconsciamente avevo sempre amato, ho cominciato a intagliarlo con un coltellino… Probabilmente la mia voglia fortissima di dare corpo a linee, pieghe e curvature che fino ad allora avevo tratteggiato su fogli di carta esigeva di esprimersi in quest’altro modo».

Lupino non ha appreso nulla dai locali maestri del legno, ha imparato tutto da solo. «Mi è venuto d’istinto – dice –. Inesperto di certe tecniche, all’inizio non mi fidavo molto del mio giudizio; ma nel costatare come le mie prime piccole sculture venivano apprezzate, ho avuto più fiducia nelle mie capacità; e gratificato dal risultato estetico, ho cominciato a impratichirmi con i materiali, con gli oli che servono a dare al legno una patina più raffinata o più grezza, a seconda dei casi. Sempre però da autodidatta».

E la reazione della gente di fronte al risultato?  «Di stupore, in genere. Per esempio sentir dire frasi come: “Ero convinto che quei pantaloni fossero veri… invece tocca qui, è legno!” è ciò che mi gratifica di più, perché rendere viva la materia, scolpire un pezzo di legno in modo che sembri un tessuto vero rappresenta in assoluto lo scopo che io mi prefiggo. Per la verità c’è stato anche chi mi ha suggerito: “Ma perché non rappresenti un uomo a cavallo invece di star lì a scolpire camicie?…”». Camicie che, comunque, avendo a che fare con l’uomo, ne richiamano la presenza.
Quando gli chiedo cosa si propone con queste sculture così particolari, Lupino risponde con le parole di Valentino Camilletti, un pittore suo amico. «Lui sostiene che la mia arte scaturisce da un mio bisogno profondo di dare dignità e monumentalità anche agli oggetti più umili, quelli di tutti i giorni, a dettagli che ai più sfuggirebbero. Dice che, quando osserva uno dei miei cappelli o delle mie borse scolpiti, non vede delle pedisseque imitazioni di quegli oggetti, ma creazioni che vivono ed emanano una luce propria…».

In effetti  Lupino usa il cirmolo, un legno dalle calde tonalità che fa parte della famiglia del pino, particolarmente indicato per questo genere di sculture perché più malleabile, più morbido rispetto ad altri legni altrettanto belli ma più duri da scolpire.

Non esclude, in futuro, di dedicarsi anche ad altri soggetti. «Una volta mi è stato chiesto di scolpire un Cristo crocifisso. Là per là ho rifiutato, dato che provo un certo ritegno nel trattare temi religiosi da esporre o commercializzare. Neppure col disegno mi sono cimentato con questi soggetti, forse perché mi sono sempre un po’ sentito inadeguato.
«Tra i miei obiettivi però c’è quello di trattare anche la figura umana (l’ho già fatto realizzando dei quadri a rilievo, ma quella è un’altra cosa), e quando sentirò che è arrivato il momento giusto vorrò cimentarmi nel realizzare un Crocifisso… Ma sì, penso che prima o poi ci arriverò, perché è importante mettersi alla prova».

Eppure, osservo io, lo stupore contemplativo che fa intuire dietro le cose comuni qualcosa di più grande, è già un primo passo verso il mistero. Lupino concorda. E aggiunge: «In un mondo dove ormai c’è troppo di tutto, dove tutto è abusato, sfruttato, si sente la necessità di valori autentici, essenziali, importanti. Ognuno di noi esprime questa necessità con i mezzi che possiede. Io cerco di farlo con i lavori di scultura. Scolpire indumenti che accompagnano la nostra vita di tutti i giorni e non sembrano importanti, forse rappresenta un modo per rompere questo appiattimento culturale e di valori, segno di decadenza. Un modo per combattere la banalizzazione e ritrovare il senso vero delle cose e della vita. Si parte da un punto. Questo è il “mio” punto».

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