L’angelo di Kiev

Il fascino delle icone e i giusti secondo Nikolàj Leskóv
La colonna con l'angelo nella Maidan di Kiev

Kiev, l’antica capitale della Rus’, è attraversata dal Dnepr, fiume che si può ben definire “sacro”: nelle sue acque infatti, alla fine del IX secolo, l’intera popolazione ricevette il battesimo cristiano, dopo la conversione del principe Vladimir il Grande. Vari i governi succedutisi nel corso dei secoli fino all’ultimo, quello sovietico. Dal 1991, Kiev è la capitale dell'Ucraina indipendente.

 

Purtroppo, in seguito alle distruzioni della Seconda guerra mondiale, non c’è molto di antico in essa da ammirare. Fortunatamente rimane la cattedrale iniziata nel 1037 per emulare lo splendore delle chiese bizantine e dedicata, come quella di Costantinopoli, alla Santa Sofia (la Santa Sapienza). Il tempio, fino al 1240 il secondo dell'intera cristianità per dimensioni, si caratterizza per le sue 13 cupole a cipolla e per l’imponente torre campanaria, uno dei simboli di Kiev. Assieme all’attiguo complesso monastico fondato da un monaco greco proveniente dall’Athos, questo superstite gioiello è stato dichiarato dall’Unesco patrimonio mondiale dell’umanità.

 

Cuore della capitale ucraina è l’immensa piazza dell’Indipendenza, popolarmente nota come Maidan, che vuol dire appunto “piazza”. Spiccano in essa i monumenti eretti ai 3 mitici fondatori di Kiev e all’arcangelo Michele, protettore della città.

 

E a proposito di angeli, è ambientato proprio a Kiev uno dei racconti-capolavoro di Nikolàj Leskóv dal titolo L’angelo sigillato, ora riproposto nel volume Tre giusti edito da Marcos y Marcos. Contemporaneo di Gogol’, Turgenev, Lermontov, Dostoevskij e Tolstoj, questo narratore che qualcuno ha definito «il più russo degli scrittori russi, e quello che meglio di chiunque conosce il popolo russo» eccelse soprattutto nel genere del racconto. Nella sua vasta produzione, Leskóv si ispirò a esperienze personali o a fatti di cronaca: pur non essendo il tipo di scrittore capace di inventare, elaborava e trasfigurava i materiali utilizzati con effetti di intensa fascinazione. Ne è prova il racconto citato, apparso per la prima volta nel 1873 sulla rivista Il messaggero russo.

 

L’idea gli era venuta da un episodio accaduto a Kiev circa 20 anni prima, protagonista un muratore avventuratosi sulle catene di un ponte in costruzione sul Dnepr per passare all’altra riva dove intendeva procurarsi vodka più a buon mercato. Leskóv trasforma questa bravata nell’epopea di una cooperativa di artigiani “vecchi credenti”, appartenenti cioè al movimento religioso che nel 1666-1667 si oppose alle riforme ecclesiastiche introdotte dal patriarca Nikon, ritenendosi gli unici depositari dell’antica fede russa.

 

Per recuperare l’icona di un angelo che era stata loro sottratta e deturpata con ceralacca (per questo, detto “sigillato), questo gruppo di uomini umili ma determinati ricorre a ogni mezzo, mettendo in gioco la stessa vita. Il racconto, condotto con fresca vena popolaresca, rivela la competenza di Leskóv nel campo dell’arte sacra russa e al tempo stesso la considerazione in cui è tenuta l’icona nella spiritualità ortodossa. Basta sentire la descrizione entusiasta dell’angelo rapito fatta da uno degli artigiani: «In quell’angelo c’era veramente qualcosa di indescrivibile. Il suo volto, è come se fosse qui davanti, era così luminoso e soccorrevole; lo sguardo intenerito; dalle orecchie uscivano raggi, a indicare il fatto che dava ascolto a tutti, in tutte le direzioni; il vestito ardeva, la collana d’oro con pietre preziose, la corazza a squame allacciata sopra le spalle, sul petto il volto del Cristo Emanuele, nella mano destra una croce, nella sinistra una spada fiammeggiante. Stupendo! Stupendo! I capelli sopra la testolina erano ricci e chiari, scendevano dietro le orecchie ondulati, come se fossero stati tracciati uno per uno, con un ago. Le ali poi erano grandi e bianche come la neve e, all’interno, azzurro chiaro, fatte penna per penna, e ogni penna pelino per pelino. Guardavi quelle ali, e sparivano tutte le tue paure: pregavi “Proteggimi”, e subito ti tranquillizzavi, e sentivi nel cuore la pace. Ecco che icona era quella».

 

Il “giusto” di questo racconto, che fino all’ultimo mantiene il lettore sospeso, è lo starec Pamva, rappresentante della Chiesa ufficiale, e per questo considerato con ostilità dai vecchi credenti. Essi però ne subiscono loro malgrado il fascino. È lui ad assicurare che l’angelo «vive nell’anima umana, sigillato da una vana sapienza, ma l’amore spezzerà il sigillo…». In effetti l’isografo (pittore sacro) Sevast’jàn riuscirà a realizzare una perfetta riproduzione dell’icona trafugata, e perfino a eliminare nell’originale la ceralacca colata sul volto dell’angelo.

 

Ma un altro sigillo blocca menti e cuori degli artigiani, l’attaccamento alle proprie credenze: sarà anch’esso dissolto, secondo le parole dello starec Pamva, che alla fine accoglierà la loro conversione.

 

Segue il racconto del 1890, ma pubblicato postumo: A proposito della Sonata a Kreutzer (riferimento a quello omonimo di Tolstoj). In esso Leskóv elabora un fatto di cui è stato testimone. Non si direbbe, ma il “giusto” di turno è una ammiratrice dello scrittore, che gli confessa il proprio adulterio e si rivolge a lui per consiglio. Durante un soggiorno in una stazione termale col marito, il figlioletto avuto dalla sua relazione extraconiugale muore di meningite. Disperata, la donna consuma il suo sacrificio. Leskóv assiste alla partenza del marito che, irrigidito nelle convenzioni sociali, non pare toccato più di tanto da quelle morti tragiche e per questo appare a lui «molto più ripugnante di sua moglie, che pure lo aveva offeso».

 

Il terzo ed ultimo racconto, L’uomo di sentinella, è del 1887. Anche qui, afferma Leskóv, «di cose inventate non ce ne sono». A Pietroburgo, una sentinella ode provenire dalla Neva gelata le grida di aiuto di un uomo caduto in una apertura del ghiaccio. Diviso tra il dovere (rimanere al suo posto in garitta) e la compassione (soccorrere il prossimo), esita a lungo, finché cede all’impulso umanitario e salva l’uomo. Lo attende però una severa punizione, forse addirittura la morte. I suoi superiori si lambiccano il cervello per salvare l’onore del battaglione e la vita alla sentinella. Questa finirà per cavarsela con una esemplare fustigazione, mentre a un altro, che si attribuisce il merito del salvataggio, tocca una medaglia (tanto più che il salvato non era stato in grado di riconoscere il suo soccorritore).

 

Con i suoi racconti Leskóv commenta una verità espressa dal Vangelo: l’uomo giusto va cercato dove meno ce lo si aspetterebbe, in genere tra le persone semplici, e occorre un occhio spirituale per arrivare a discernerlo. Uno sguardo puramente umano, invece, rischia di scambiare il giusto per ingiusto e viceversa. Gesù, il Giusto per eccellenza, non è stato forse condannato a una morte infamante?

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