L’angelo dell’Asia

Si è concluso il viaggio di Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace, nel nostro Paese. Roma, Torino, Bologna e Parma l'hanno accolta con calore e partecipazione. Le sue parole sono il segno di una rivoluzione spirituale che deve farsi cultura e politica. L'incontro di Bologna nell'esperienza di un nostro collaboratore
Aung San Suu Kyi riceve la laurea honoris causa in Filosofia all'università di Bologna

È in visita in questi giorni in Italia la signora Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace nel 1990, grande testimone della lotta non violenta in Asia e nel suo Paese, il Myanmar, dove si è avviata una delicata transizione da un regime militare alla democrazia.

Ha incontrato papa Francesco, il presidente della Repubblica Giorgio Napoletano, il presidente del Consiglio Enrico Letta, il ministro degli Esteri Emma Bonino; è stata a Roma, dove ha ricevuto la cittadinanza onoraria, come a Torino, Bologna e Parma.

All’università di  Bologna ha ricevuto la laurea honoris causa in Filosofia, che le era stata conferita nel 1990, ma che non aveva potuto ricevere, perché per oltre venti anni è vissuta agli arresti domiciliari.

Ho avuto la possibilità di parlarle per qualche minuto in una saletta dell’Aula magna. Innanzitutto la gentilezza e la fortezza di questa signora. Ero insieme a un amico che le voleva presentare un progetto e, entrata nella stanza, si è diretta senza incertezze verso la mia persona e la mia carrozzina. Ero la persona più importante per lei, la più degna del suo saluto in quella sala, anche se altri avevano chiesto l’incontro.

Verrebbe da dire il primato del disabile, del debole, del ferito su tutti. Un gesto compiuto senza retorica, con semplicità ed eleganza. Mi ha abbracciato, mi ha tenuto le mani, mentre, emozionatissimo, le raccontavo come il 22 febbraio 2008 mi trovavo, con la mia carrozzina, a Jangoon, davanti alla sua casa/carcere, dove si trovava agli arresti domiciliari. Fin lì ero arrivato per dimostrare l’affetto della Regione Toscana per lei. II mitra dei soldati mi costrinse a indietreggiare.

Lasciai all’ambasciatore italiano il premio Pegaso. La signora lo ha ricevuto un attimo dopo la sua liberazione, come l’ambasciatore si era impegnato a fare. E ieri lei lo ha ricordato nel breve colloquio. Poi mi ha salutato con grande intensità, quasi dimenticando gli altri, compreso il mio amico che le aveva portato dei libri.

Sono sceso in Aula magna in tempo per vederla salire dal fondo dell’aula verso la tribuna. Arrivata alla mia altezza, ha fatto due inchini solenni, a indicare la persona speciale che lei intendeva onorare.

Infine, alla conclusione della cerimonia, si è di nuovo accostata alla mia carrozzina, mi ha dato la mano, che le ho baciato a indicare l’onore che avevo ricevuto da lei e al tempo stesso per testimoniarle tutto l’affetto di chi era andato alla periferia del mondo, in Myanmar, e tutto l’impegno comune per la democrazia e i diritti umani.

Ecco due delle  parole che ha lasciato come dono per tutti:

1) il fine non giustifica i mezzi. «Se scegliamo mezzi che non sono corretti, anche i fini, per quanto possano essere giusti e di grande valore, allora diventano distorti». E riferendosi all’assassino di suo padre, così si è espressa: «Anche lui credeva all’indipendenza del suo Paese, ma voleva raggiungerla nel modo sbagliato, senza scrupoli. Mio padre credeva invece che bisognava raggiungere l’indipendenza con onore»;

2) la riconciliazione: io non ho mai provato odio nei confronti del potere militare. La condanna, dice qualcuno, è essenziale per risolvere i problemi, io, invece, ho scoperto qualcosa di diverso sulla base della mia esperienza, e cioè che la condanna non fa altro che alimentare il fuoco della paura e dell’odio. A me non interessa la condanna, ma la riconciliazione e la pace.

Con la fierezza e la mitezza della sua vita, essa ci ha consegnato non la retorica delle parole, ma la loro forza di verità, la loro coerenza, la loro capacità di mobilitare un intero popolo verso la democrazia. Senza fretta, ma con la calma, senza violenza, ma con il perdono. Senza affanni, ma con il silenzio e l’ascolto.

In  particolare nel discorso di accettazione della cittadinanza onoraria di Bologna, lei ha parlato del diritto al pentimento: «Ogni individuo ha il diritto di poter cambiare strada e di potersi pentire, e questo proprio perché è l’unica via che ci può permettere di arrivare a un mondo all’insegna dell’umanità, un mondo migliore e, ripeto, noi siamo soltanto all’inizio».

La signora indica la via di una grande rivoluzione spirituale, che deve diventare cultura e politica. Per questo attrae il mondo, e anche un Paese provato e sfibrato come il nostro. Gli angeli guardano più lontano di noi e indicano la strada.

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