L’anello della Pace

L’isola di Lindau accoglie 900 leader religiosi che discutono di Amazzonia, di armamenti, di risoluzione dei conflitti. “Religioni per la pace” vuol essere presente nell’agone internazionale perché la fede è sempre più elemento decisivo per la pace nel mondo

L’Anello della pace (Ring for Peace), ha accompagnato per quattro giorni i 900 leader e rappresentanti delle maggior religioni del pianeta, riuniti sull’isola di Lindau, gioiello nel cuore del ramo tedesco del lago di Costanza. Questo piccolo capolavoro artistico, alto sette metri e mezzo, è una scultura concepita da Gisbert Baarman, artista tedesco che lo ha realizzato con 36 tipi di legno provenienti da diverse parti del mondo. È stato posto al limite del Luitpold Park, la punta estrema della Ilsen, l’isola, centro storico della cittadina tedesca, che ha ospitato nei giorni scorsi la X Assemblea mondiale di “Religioni per la pace”, già nota come “Conferenza mondiale delle religioni per la pace”. Si tratta, con tutta probabilità, della prima grande organizzazione mondiale nata nel 1970 per incoraggiare e costruire il dialogo interreligioso. Il “Parlamento mondiale delle religioni”, svoltosi alla fine del XIX secolo a Chicago, era senza dubbio stato un segno profetico di quanto sarebbe avvenuto nel secolo successivo, ma si era poi fermato per cento anni, fino alla sua ripresa nel 1992.

“Religions for Peace”, nata a Kyoto per desiderio e impegno di vari protagonisti della prima stagione pionieristica del dialogo interreligioso, raggiunge così il mezzo secolo di vita. L’Anello della pace di Lindau sembra voler essere il simbolo di questa stagione importante, quella della continuità, che ha visto l’esperienza dell’incontro fra fedeli di altre religioni muovere i primi passi, a volte timidi e confusi, per arrivare, attraverso fasi alterne ed un viaggio spesso su terreni scoscesi e pericolosi, a quello che si è visto a Lindau. Dalla fine degli anni Sessanta, quando questo organismo fu pensato da vari rappresentanti di diverse fedi – fra questi un ruolo particolare lo ebbe il Rev. Nikkyo Niwano, fondatore del Movimento buddhista giapponese della Rissho Kosei-kai – il mondo è profondamente cambiato. Le sfide, comunque, restano ancora le stesse e, forse, si sono ulteriormente complicate. La minaccia atomica – allora vera spada di Damocle della Guerra fredda – resta ancora tale con i giochi pericolosi che hanno come teatro la penisola coreana ed il sub-continente indiano. La globalizzazione ha acuito il divario fra ricchi e poveri. Ma la grande novità è che negli ultimi decenni le religioni sono tornate protagoniste della scena pubblica portando alla ribalta il grande quesito: potenziale causa o soluzione delle tensioni e dei conflitti?

In questi decenni, sullo scenario mondiale si sono alternati momenti di speranza – basta ricordare il grande avvenimento di Assisi 1986 – ad altri di terrore con un progressivo processo di radicalizzazione del fatto religioso. Il 9/11 è solo la punta dell’iceberg che, sebbene presenti il problema nel cuore dell’Islam, progressivamente demonizzato ed identificato con il radicalismo religioso, ha interessato tutti i fenomeni e le tradizioni religiose. Siamo stati testimoni, in queste ultime due decadi, soprattutto in Europa, di quanto stiamo vivendo in un mondo che molti di noi non avevano previsto. In Occidente, grandi sociologi negli anni Settanta – quando “Religions for Peace” nasceva – avevano previsto la scomparsa del fatto religioso e dell’interesse dell’uomo e della donna post-moderni per esso. Oggi, invece, ci rendiamo conto che le migrazioni ci portano chi crede diversamente alla porta accanto alla nostra e questo ci inquieta e ci interroga sulla nostra identità. Intanto, negli altri angoli del mondo, la religione o le religioni hanno continuato a essere profondamente legate al tessuto sociale ed esistenziale delle rispettive culture e civiltà.

La globalizzazione è riuscita a far spostare e migrare anche le fedi e buddhismo e induismo sono approdate in Europa, insieme all’Islam, anche se in modo discreto rispetto a esso, ma forse ancora più penetrante. Intanto, a parte i conflitti che sembrano non finire mai come una vera Idra di Lerna, alla quale tagliata una testa ne crescevano altre, si sono presentate altre sfide. Prima su tutte quella ambientale che, proprio in questi giorni, con i grandi roghi dell’Amazzonia interroga il futuro del mondo. I 900 delegati al grande convegno di Lindau si sono dovuti confrontare con queste sfide, alternando momenti di riflessione all’ascolto di un vissuto fatto di buone pratiche, che dimostrano come le religioni e le rispettive comunità a cui danno vita, possono offrire proposte di soluzione concreta e sostenibile alle sfide del pianeta. Il titolo della kermesse era sintomatico: “Caring for our Common Future: Advancing Shared Well-Being”, cioè prendersi cura del futuro, infatti, significa proprio camminare insieme e preparare un benessere condiviso, che oggi pare ancora molto lontano.

Il dibattito, forse a differenza del passato, si è presentato molto concreto con proposte ben definite e calibrate al termine delle varie plenarie. Si è approvato un “Protocollo per la riconciliazione”, preparato e sperimento negli anni scorsi da diverse comunità, coscienti che, senza il perdono, non si può sperare in un futuro sereno e di pace. Ma ci sono state anche proposte concrete di richiesta agli Stati di un taglio simbolico ai rispettivi fondi per gli armamenti per arrivare ad una sensibilizzazione universale alla pace. Si è toccato, ovviamente, anche il nodo della prevenzione e la soluzione dei conflitti – con esperienze concrete in Asia e Africa –, ma anche la situazione ed il ruolo della donna, vera protagonista del dialogo in un mondo, quello religioso, ancora troppo dominato dalla presenza maschile.

A questo proposito un atto profondamente significativo è stata, per la prima volta in mezzo secolo, la nomina di una donna come segretaria generale dell’organizzazione. Azza Karram, olandese di origini egiziane, da anni attiva presso le Nazioni Unite, oltre ad essere donna è anche musulmana. Una donna islamica al vertice di una organizzazione per la promozione del dialogo fra gli uomini e le donne di fede è senza dubbio un passo significativo. Riconoscere la centralità della donna in un organismo internazionale di dialogo interreligioso, significa valorizzarne il ruolo cruciale che non è quello rituale o di leadership religiosa e amministrativa, ma di fautrice di dialogo grazie ad un carisma che Giovanni Paolo II definiva “genio femminile”.

Ovviamente, le sfide rimangono e, col passare del tempo, diventano probabilmente più complesse, ma la X Assemblea mondiale di “Religions for Peace” ha confermato un aspetto essenziale per chi crede e vive nel dialogo: la necessità della continuità e della fedeltà. Elemento fondamentale, emerso in questi giorni, è la profonda rete di rapporti costruiti in questi decenni che hanno permesso spesso di risolvere problemi locali ed internazionali grazie alla fiducia costruita fra molti protagonisti di questa esperienza. Altro elemento da non trascurare. Alcuni dei delegati sono cresciuti alla scuola dei padri fondatori e portano, quindi, il Dna del dialogo. È questo quello che ha sottolineato Kosho Niwano, co-moderatrice di “Religioni per la pace”, che nella sessione di apertura ha voluto ricordare il nonno, Nikkyo Niwano, e l’importanza di essere cresciuta con lui per la sua formazione come donna di dialogo. Si è, quindi, definita nipote non solo di Niwano ma anche di “Religions for Peace”. Il susseguirsi delle generazioni è fondamentale per la storia dell’uomo come insegna il libro del Qohelet. Lo abbiamo toccato con mano tutti insieme a Lindau.

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