Landgrabbing. Il neocolonialismo parte dalla terra

Nuove e antiche mappe di potere. Le iniziative per un’equa distribuzione delle risorse
Foresta amazzonica

In inglese si chiama “landgrabbing” e la traduzione italiana più comprensibile è quella di “arraffa terre”. Il potere, cioè, esercitato dai gruppi economici transazionali che non hanno sempre bisogno di cannoni e aerei per imporre la propria volontà su interi continenti. Il tratto comune di un globo alle prese con risorse essenziali, come cibo e acqua, sempre meno accessibili a tutti, induce i grandi detentori di capitale a ritornare all’antico controllo e possesso della terra fertile. Immense estensioni di territorio sottratte alle necessità delle popolazioni locali e valorizzate come coltivazioni intensive per costituire riserve alimentari da giocare sul fronte della speculazione del prezzo del cibo oppure per diventare materia prima del biocarburante.

Sono in gioco i beni comuni non solo delle comunità contadine del Sud del mondo ma lo stesso patrimonio dell’umanità intera compromesso da una gestione ineguale e distruttiva della ricchezza.

Lo denunciano da tempo le riviste dei missionari ed è certificato da centri studi indipendenti come lo statunitense Oakland Institute che mette sotto accusa hedge fund e banche d’affari, cioè le «stesse società che hanno provocato la recessione mondiale gonfiando la bolla immobiliare con operazioni finanziarie ad alto rischio, e ora stanno facendo la stessa cosa con le forniture di prodotti alimentari».

Da questa consapevolezza nasce l’esigenza di non poter accettare questa realtà come un destino ineluttabile. Delegazioni di organizzazioni contadine da tutto il mondo arrivano periodicamente alle riunioni della Fao, a Roma, chiedendo nuove regole sul diritto alla terra e alla sovranità alimentare. Nell’ultimo incontro di ottobre, come riporta la rete Faircoop, sono giunte richieste come quella di Mamadou Ba, portavoce del Conseil National de Concertation et de Coopération des Ruraux del Senegal, che ha chiesto agli Stati delle «linee guida che ci sottraggano dalle mani degli speculatori e che assicurino l’accesso e il controllo sulle risorse naturali, incluse la terra, l’acqua, le riserve di pesca e le foreste, ai piccoli produttori, alle popolazioni locali, alle comunità indigene e ai popoli in conflitto».

Per trovare una via di uscita bisogna prendere coscienza che la questione dell’accaparramento di terre non è qualcosa che riguarda solo i fondi sovrani cinesi in Africa o chissà quali entità astratte. L’associazione “Re:Common” ha lavorato ad un dossier sul coinvolgimento di una ventina di aziende italiane coinvolte nell’affare del nuovo secolo. Secondo la ong Oxfam impegnata contro la fame nel mondo, sono “227 milioni gli ettari di terra venduti, affittati o concessi in uso in tutto il mondo dal 2001. Una superficie equivalente all’Europa nord-occidentale”

È perciò significativa la testimonianza diretta che ci giunge dalla rete internazionale di corrispondenti di Città Nuova, radicati nella vita reale e comunitaria dei vari Paesi, che permettono di offrire uno sguardo originale su fatti ed eventi di dimensione planetaria come il saccheggio delle risorse che si rivela autodistruttivo. Come afferma, infatti, Rehema Bavuma, rappresentante ugandese del Forum mondiale dei pescatori, «se non si proteggono i piccoli produttori di cibo dalla voracia di terra dei grandi investitori finanziari, come anche dall’invasione delle piantagioni di agro carburanti, la maggior parte degli abitanti del pianeta non avrà più niente da mangiare e la battaglia contro la fame sarà persa in partenza».  

Link per dossier http://www.recommon.org/gli-arraffa-terre/

Link per Oakland http://www.oaklandinstitute.org/

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