L’amore per i poveri
L’intelligenza vivace della piccola Iolanda si nutrì di quel clima familiare oltremodo aperto e stimolante, distinguendosi per le molteplici curiosità: univa un raffinato gusto artistico alla propensione per le questioni sociali, il costante duplice registro della sua personalità assetata d’armonia.
In quel tempo avevo tanti amori: l’amor di patria, l’amore per l’arte…, la montagna! Ma anche l’amore per i poveri aveva trovato un grande spazio nel mio cuore. E siccome amavo tanto i poveri, ancor giovane ho fatto il corso di infermiera per essere in grado, al bisogno, di aiutare gli ammalati.
Nell’anno scolastico 1928-29 si diplomò all’Istituto Magistrale «Antonio Rosmini» di Trento. Grazie al corso di infermiera ebbe accesso al Corpo Volontario della Croce Rossa, allora sotto l’alto patronato della regina, con il numero di matricola 13583. Quando facevo la crocerossina non volevo assolutamente mettermi lo stemma fascista. Mi rifiutavo, e allora avevo le sgridate dalla responsabile di noi volontarie.
L’amor di patria in Duccia non si nutriva dei simboli della retorica nazionalista. Era un darsi per il bene, in modo ampio e concreto. Bastava guardare ai genitori: il padre era presidente dell’ECA, l’Ente Comunale di Assistenza, mentre la madre si dedicava alle attività della Società Dante Alighieri, oltre che alla campagna per la lotta contro la tubercolosi.
Da loro, dai genitori, aveva assimilato presto uno sguardo di attenzione alla città intera e la sensibilità alle esigenze della povera gente, che certo non mancava nelle vicinanze di casa Calderari. Per la posizione periferica rispetto al centro cittadino, la villa era contigua a certi casolari rustici, alle povere dimore dei contadini; del resto via Cervara si inerpica sul versante sinistro della valle dell’Adige e conduce ai sobborghi della montagna. Molti allora vi scendevano al mattino, raggiungendo le piazze dei mercati per qualche gramo commercio di legna o di frutta e verdura. Forte del suo diploma di infermiera, Iolanda si prestava volentieri a un’assistenza spicciola, di buon vicinato (per le iniezioni ad esempio), a chi le si rivolgeva con richieste d’aiuto.
Un giorno si confidò: Mi sembrava d’essere una privilegiata vivendo in quella grande casa con attorno tante famiglie bisognose… Ricordo una sera in cui papà aveva invitato a cena dei suoi amici, fra cui persone illustri. All’ultimo momento si accorse che mancavano i sigari, da offrire come si usava allora, e mi chiese di uscire a comprarne. Era già buio. Per strada incontro una donna dal viso molto angustiato. «Cosa c’è?», le dico. «Non è ancora tornato a casa mio marito ed è tardi…». Mi racconta che faceva lo strillone, il venditore ambulante di giornali, e a casa aveva tre bambini. Abitavano nel vicoletto Sodegerio da Tito e capisco che la loro vita non era per niente florida. Avevo fretta, mi aspettavano a casa, ma mi spiaceva lasciarla. Le dico: «Ci vediamo domani». Il giorno dopo sono andata a casa loro e ho invitato i bambini a venire a fare colazione da me. Lei li ha mandati subito, ovviamente. Ho preparato della cioccolata e delle focaccine con l’uvetta. Da quella mattina i bambini venivano spesso alla Cervara a fare un’abbondante colazione e si trascinavano pure i loro amichetti, per cui alla fine erano sei o sette bambini. La mamma mi lasciava fare.
da "L'altro novecento. Nella testimonianza di Duccia Calderari" di Ilaria Pedrini (Città Nuova, 2016)