L’amore per i poveri

Fin da giovanissima Iolanda, detta Duccia, dimostra una straordinaria sensibilità per le questioni sociali e un’attenzione concreta ai poveri come racconta Ilaria Pedrini ne “L’altro novecento. Nella testimonianza di Duccia Calderari” (Città Nuova, 2016)
L'altro novecento_Pedrini_Città Nuova_2016

L’intelligenza vivace della piccola Iolanda si nutrì di quel clima familiare oltremodo aperto e stimolante, distinguen­dosi per le molteplici curiosità: univa un raffinato gusto ar­tistico alla propensione per le questioni sociali, il costante duplice registro della sua personalità assetata d’armonia.

 

In quel tempo avevo tanti amori: l’amor di patria, l’amore per l’arte…, la montagna! Ma anche l’amore per i poveri aveva trovato un grande spazio nel mio cuore. E siccome amavo tanto i poveri, ancor giovane ho fatto il corso di infermiera per essere in grado, al bisogno, di aiutare gli ammalati.

 

Nell’anno scolastico 1928-29 si diplomò all’Istituto Ma­gistrale «Antonio Rosmini» di Trento. Grazie al corso di in­fermiera ebbe accesso al Corpo Volontario della Croce Ros­sa, allora sotto l’alto patronato della regina, con il numero di matricola 13583. Quando facevo la crocerossina non volevo assolutamente mettermi lo stemma fascista. Mi rifiutavo, e al­lora avevo le sgridate dalla responsabile di noi volontarie.

 

L’amor di patria in Duccia non si nutriva dei simboli del­la retorica nazionalista. Era un darsi per il bene, in modo ampio e concreto. Bastava guardare ai genitori: il padre era presidente dell’ECA, l’Ente Comunale di Assistenza, mentre la madre si dedicava alle attività della Società Dante Alighie­ri, oltre che alla campagna per la lotta contro la tubercolosi.

 

Da loro, dai genitori, aveva assimilato presto uno sguar­do di attenzione alla città intera e la sensibilità alle esigenze della povera gente, che certo non mancava nelle vicinanze di casa Calderari. Per la posizione periferica rispetto al cen­tro cittadino, la villa era contigua a certi casolari rustici, alle povere dimore dei contadini; del resto via Cervara si iner­pica sul versante sinistro della valle dell’Adige e conduce ai sobborghi della montagna. Molti allora vi scendevano al mattino, raggiungendo le piazze dei mercati per qualche gramo commercio di legna o di frutta e verdura. Forte del suo diploma di infermiera, Iolanda si prestava volentieri a un’assistenza spicciola, di buon vicinato (per le iniezioni ad esempio), a chi le si rivolgeva con richieste d’aiuto.

 

Un giorno si confidò: Mi sembrava d’essere una privile­giata vivendo in quella grande casa con attorno tante famiglie bisognose… Ricordo una sera in cui papà aveva invitato a cena dei suoi amici, fra cui persone illustri. All’ultimo momento si accorse che mancavano i sigari, da offrire come si usava allo­ra, e mi chiese di uscire a comprarne. Era già buio. Per strada incontro una donna dal viso molto angustiato. «Cosa c’è?», le dico. «Non è ancora tornato a casa mio marito ed è tardi…». Mi racconta che faceva lo strillone, il venditore ambulante di giornali, e a casa aveva tre bambini. Abitavano nel vicoletto Sodegerio da Tito e capisco che la loro vita non era per niente florida. Avevo fretta, mi aspettavano a casa, ma mi spiaceva la­sciarla. Le dico: «Ci vediamo domani». Il giorno dopo sono an­data a casa loro e ho invitato i bambini a venire a fare colazione da me. Lei li ha mandati subito, ovviamente. Ho preparato del­la cioccolata e delle focaccine con l’uvetta. Da quella mattina i bambini venivano spesso alla Cervara a fare un’abbondante colazione e si trascinavano pure i loro amichetti, per cui alla fine erano sei o sette bambini. La mamma mi lasciava fare.

 

da "L'altro novecento. Nella testimonianza di Duccia Calderari" di Ilaria Pedrini (Città Nuova, 2016)

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