L’Amore è tutto ciò che siamo

Due giovani sposi cresciuti in territorio palestinese, appartenenti a due popoli in discordia. Nonostante il dolore e la sofferenza, la loro storia testimonia che c’è qualcosa più forte di ogni guerra.
Foto Pexels

Iael e Abdul – nomi di fantasia – si sono sposati due mesi fa e vivono ora in un paesino del Parmense. Lei è israeliana, lui arabo-palestinese. Ho conosciuto Abdul un anno fa, ma prima di raccontarvi in che modo, vorrei dirvi come stanno vivendo oggi questo drammatico conflitto, loro che appartengono ai due popoli in guerra.

C’è dentro di loro un’angoscia indescrivibile perché sono lontani dalla loro terra, in un altro Paese, mentre i loro cari sono sotto i raid dell’uno e dell’altro esercito, costretti a vivere nei bunker questa esperienza drammatica. Infatti, in questo conflitto gli esseri umani sono usati come scudi umani, merce di scambio o trucidati senza pietà.

Iael e Abdul sono cresciuti insieme in uno dei tanti villaggi della Palestina. Ogni villaggio ha la propria storia antica e particolare: qualche personaggio famoso, un santuario in cui pregare, le proprie credenze, le abitudini, i propri mercati e i balli. Si riusciva a convivere, pur nella diversità, senza particolari problemi e paure. Lei spiega: «Ho sempre vissuto con i miei genitori e con i genitori di Abdul, che abitano poco lontano da noi. Mai né loro né noi ci siamo sentiti nemici, ma anche intorno a noi era così. Vogliono far credere che la Palestina sia una polveriera e che una parte dei suoi abitanti provi odio per l’altra parte. Non è vero. Sono stati i miei suoceri a volere che io studiassi insieme ai loro 4 figli e sono soddisfatta di averlo fatto. Mio suocero è molto colto. Mi ha sempre raccontato che per i palestinesi la terra è tutto. Hanno imparato a convivere con gli israeliani, ritenuti dai loro antenati degli usurpatori quando gli inglesi, nel 1947, hanno lasciato libero Israele di autoproclamarsi Stato ebraico. Addirittura noi preghiamo alla stessa ora dei nostri amici musulmani, festeggiamo insieme momenti belli e piangiamo in quelli tristi. Balliamo e cantiamo come un’unica famiglia, eppure il mondo ci pensa nemici, profondamente divisi. Come diceva David Grossman, israeliani e palestinesi non hanno bisogno di erigere un muro che li separi, hanno bisogno di abbattere il muro che li divide, che divide soprattutto i loro governanti».

«Abdul mi proteggeva – prosegue Iael -, mi portava qualcosa da mangiare perché ero magrissima. Arrivava con una pentola di latta rivestita di foglie di vite… E poi ci piaceva ballare fin da piccoli e ridere». Lui aggiunge: «Il sorgere del sole era qualcosa di magico, apparteneva a me e a lei, nessuno poteva togliercelo. Un giorno ci guardammo negli occhi, io leggevo i suoi pensieri e lei i miei, in silenzio ci abbracciammo. Ripenso a quegli anni con nostalgia, non avevamo nulla per riscaldarci nelle notti fredde, ma avevamo altre cose che ci riscaldavano l’anima. Condividevamo tutto, dai vestiti alle angosce. Un giorno, a Gerusalemme, abbiamo inciso i nostri nomi su un’antica pietra».

Qualche anno fa, il fratello di Abdul venne in Emilia e, 8 mesi dopo, chiamò pure lui per realizzare qualche sogno dei tanti sepolti dentro. «Senza Abdul – interviene Iael – mi pareva impossibile vivere in quel piccolo angolo. Ma sapevo che non ci dividevamo per sempre. Ci saremmo sposati un giorno! Nasciamo tutti possedendo già i tesori più grandi della vita: uno di questi è la nostra mente, un altro è il nostro cuore».

Ho conosciuto Abdul a Parma, mentre girava con la sua bicicletta sempre piena di mazzi di fiori.  Era dappertutto: davanti al supermercato, davanti all’ospedale e all’ingresso del Parco Ducale. Anch’io mi muovevo in bici, e un giorno bucai. Lui si fermò per aiutarmi e io gli comprai un mazzo di fiori. Da allora diventammo amici.

Mi parlò di Iael… Si vedeva che soffriva! Si portava addosso la sua condizione di esule cercando di adattarsi. «Tu portare fortuna a me quando comprare fiori», mi diceva. Non si lamentava mai il mio amico arabo, neppure quando non riusciva a vendere i suoi fiori. Io glieli avrei voluti comprare tutti e, in quei momenti, soffrivo per lui.

Un giorno mi venne un’idea: fare un giro di telefonate a vari sacerdoti per proporre di comprare non solo i fiori colorati di Abdul, ma anche di impiegarlo in lavoretti vari… C’era però da vincere la loro diffidenza e farlo accettare a poco a poco, cosa non affatto semplice. Che bello entrare in una chiesa e trovare i fiori colorati di Abdul! Ammirandoli, mi commuovo tuttora: penso che, amando, ci viene data la possibilità di far fiorire la Vita, che giace addormentata in tutti noi.

Poi, un giorno, mi telefonò felice: un sacerdote gli aveva proposto di andare ad abitare in una parte della canonica dove c’è un piccolo appartamento! È la svolta! Può lasciare la stanza dove abita con suo fratello e sposare la sua ragazza! Ora vendono fiori in un negozietto tutto loro. Conoscerli mi ha arricchito tanto!

Mi hanno regalato questa preghiera: Ti amo, fratello, chiunque tu sia, sia che tu ti inchini nella tua chiesa sia che t’inginocchi nel tuo tempio o preghi nella tua moschea. Tu ed io siamo figli di una sola fede, giacché le diverse vie della Religione non sono che le dita dell’amorevole mano di un solo Essere supremo, una mano tesa verso tutti, ansiosa di accogliere tutti.

Ho capito che l’Amore è tutto ciò che siamo!

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