L’amore al prossimo
Gesù congiunge indissolubilmente il comando dell’amore pieno, totale verso Dio a quello dell’amore verso gli uomini: Amerai il prossimo tuo come te stesso (Mt 22, 39). E questo il secondo comandamento tanto simile al primo. Per poterli attuare, la Sacra Scrittura ci indica una norma semplice, concreta, adatta a tutti. L’amore a Dio, infatti, essendo egli al di là di ogni esperienza sensibile, potrebbe diventare una parola senza senso. Per questo ci viene detto: non si può amare Dio che non si vede se non si ama il prossimo che si vede (cf. 1 Gv 4, 20). Ma se è vero che l’amore a Dio rischia di diventare illusorio, di materializzarsi in pratiche di pietà puramente esteriori se non è comprovato da un effettivo amore agli uomini, è pur vero che anche l’amore verso gli uomini ha i suoi rischi, i suoi equivoci. L’amore agli uomini può diventare infatti semplice filantropia, sentimento egoistico di possesso, affetto privo di vero contenuto spirituale. Se analizzassimo il vocabolo amore nelle lingue correnti occidentali, troveremmo che esso ha i significati più vari, le sfumature più diverse. Per tale motivo, la Sacra Scrittura ci presenta una linea sicura per capire quando il nostro amore agli uomini è amore vero, è partecipazione alla paternità amorosa di Dio. Scrive l’evangelista Giovanni: Chiunque crede che Gesù è il Cristo, è nato da Dio; e chi ama colui che ha generato, ama anche chi da lui è stato generato. Da questo conosciamo di amare i figli di Dio: se amiamo Dio e ne osserviamo i comandamenti, perché in questo consiste l’amore di Dio, nell’osservare i suoi comandamenti; e i suoi comandamenti non sono gravosi. Tutto ciò che è nato da Dio vince il mondo (1 Gv 5,1-4). È un brano, questo, che racchiude indicazioni varie, ma tutte collegate fra loro. Ci da una definizione piena del cristiano: il cristiano è colui che crede che Cristo è il Messia, il Figlio di Dio; e questa fede ha come effetto di renderci generati da Dio, figli anche noi di Dio. È allora logico che colui che è generato non può non amare gli altri generati dallo stesso Dio. Dice Giovanni: Chi ama colui che ha generato, ama anche chi da lui è stato generato. È in queste parole che viene rivelato il motivo più profondo dell’amore tra gli uomini: siamo congenerati insieme e tra noi può veramente nascere l’amore, l’agape divina. Si comprende allora perché un tale amore ha un profondo significato, è l’unica vera chiarificazione sul perché del nostro esistere con gli altri. Se, dunque, l’amore di Dio verso di noi ci porta come logica conseguenza all’amore verso gli uomini, l’amore verso gli uomini, se è autentico amore, ci fa risalire immediatamente verso Dio. E la riprova sta nel fatto che osserviamo i suoi comandamenti. Il nostro amore infatti è vero se è sempre in armonia con i comandi di Dio, con una vita morale pura, con il distacco dalla ricchezza, con la ricerca non del successo o della riconoscenza degli uomini, ma del dono di sé nell’umiltà e nel nascondimento. Allora, dice ancora Giovanni: I comandamenti di Dio non sono gravosi (1 Gv 5, 3). In realtà, se amiamo, i comandi del Signore sono leggeri e soavi poiché sono in corrispondenza armoniosa con l’indirizzo della nostra esistenza; diventano invece pesanti, difficili, dolorosi quando la nostra volontà, magari inconsciamente, non è orientata a Dio, ma ad altro. Ed è anche per questo che Giovanni può dire: Ciò che è nato da Dio vince il mondo (1 Gv 5, 4). Vivere nell’accettazione del suo amore e nel ricambiare con l’amore l’aver ricevuto da lui l’essere, ci fa infatti superare tutte le difficoltà, interne o esterne, ci da la possibilità di affrontare le incomprensioni, le derisioni, perfino le persecuzioni. Di più: una gioia profonda ci invade l’anima, quasi a riprova che le difficoltà sono un segno che siamo nell’amore di Dio, come ha annunciato Gesù nel discorso della montagna: Beati i perseguitati per causa della giustizia (Mt 5,10). Chi era il prossimo per Gesù? La domanda non è oziosa se gli stessi ascoltatori del Signore se lo sono chiesto e hanno rivolto a lui la domanda che ci poniamo anche noi: Chi è il mio prossimo? (Lc 10, 29). Nel Primo Testamento questa parola indicava soprattutto il congiunto, o per stirpe o perché assimilato al popolo ebreo; implicava quindi un legame di sangue o un affratellamento giuridico, la consanguineità acquisita per l’accettazione nella comunità ebraica. Per noi cristiani, invece, come per Gesù, i prossimi non sono solamente coloro che sono vicini spiritualmente, né solamente i congiunti di famiglia o di popolo. Prossimi sono e debbono diventare per noi tutti coloro che appartengono al genere umano, anche se non hanno la nostra stessa fede religiosa, anche se non condividono le nostre idee morali, anche se non perseguono i nostri intenti politici. Prossimi sono tutte le persone che ci passano accanto e che dobbiamo servire, aiutare. Prossimi sono anche i nostri nemici che dobbiamo amare per essere – come ci ricorda Gesù – figli del Padre che è nei cicli, di quel Padre che fa piovere e sorgere il sole sui malvagi e sui buoni (cf. Mt 5, 44-45), perché tutti sperimentino il suo amore e scoprano la sua paternità. E come amare il prossimo? La frase del Primo Testamento, ripresa e spiegata da Gesù, sembra semplice, facile: occorre amarlo come sé stessi. Come sé stessi certamente vuol dire che non dobbiamo fare agli altri ciò che non vorremmo fosse fatto a noi, evitare cioè di fare il male al prossimo. Ma Gesù non ci domanda solo questo; ci dice di amare il prossimo come noi stessi. E amare, allora, vuoi dire fare il bene che vorremmo fosse fatto a noi; aiutare concretamente gli altri, servirli, mettendo a loro disposizione il nostro tempo, la nostra fatica, il nostro denaro, perché ne ricevano un beneficio. Di più: Gesù vuole che noi doniamo agli altri anche i nostri tesori spirituali, fino a sentirci fra noi tutti fratelli. E per far questo occorre imparare da lui, mettersi alla sua scuola, poiché egli, che ha dato la sua vita per noi, può insegnarci come essere pronti a dare la vita per il prossimo. Dare la vita, infatti, è l’estrema possibilità del più grande amore, in quanto implica il dimenticare radicalmente sé stessi per essere sempre rivolti al bene degli altri, avendo come nostra unica guida Dio. L’amore reciproco Quando Gesù, ormai prossimo alla morte, volle riassumere l’intero insegnamento che aveva dato durante la sua vita, disse le più semplici parole che mai pensatore poteva formulare: Amatevi gli uni gli altri (Gv 15,12). Sono parole che tutti capiscono, la persona meno colta come il più grande scienziato e letterato; sono parole traducibili in ogni lingua, penetrabili in ogni cultura, dell’oriente come dell’occidente. Ed è così perché l’amore è il mistero dell’origine della vita tra gli uomini. È, infatti, dall’amore di due persone marito e moglie che i figli ricevono la vita e nasce quella cellula fondamentale della società che è la famiglia. È inoltre l’amore vicendevole tra genitori e figli che ne consente lo sviluppo umano, fisico e psicologico. Ed è ancora l’amore che permette la convivenza armonica nel mondo civile. Per tale ragione, quelle parole possono essere subito colte e afferrate da tutti. Molte volte, però, meditandole, non si entra in tutta la loro profondità. Quelle parole racchiudono il segreto profondo del mistero dell’essere. Se, infatti, tutti gli uomini, di qualunque razza, di qualunque condizione, possono capire subito quelle parole, se esse hanno, di fatto, un valore reale nella vita delle famiglie e dei popoli, è perché racchiudono una realtà profonda, che concerne l’essere stesso di Dio. È infatti nell’amore vicendevole che si rivela, per noi cristiani, la realtà intima ed essenziale di Dio, il suo essere Trinità, il suo essere amore reciproco tra Padre, Figlio e Spirito Santo, ciascuno dei quali è l’Unico Dio. Ed è perciò nel comandamento dell’amore reciproco che l’umanità viene chiamata a vivere sul modello della vita della Trinità. Questo è, in sintesi, il significato cristiano della parola agape.