L’Amleto malato e cinico di Alessandro Preziosi
Dramma della coscienza. Delle malattie dello spirito. Delle nostre insicurezze, delle nostre paure, dei nostri rimpianti, dei nostri dubbi, traversati dall’unica certezza della morte. L’Amleto di Shakespeare continua a catturarci per le infinite variazioni di significato che ogni lettura scenica può offrirci. A patto che se ne scandagli in profondità il senso. La storia di Amleto sulla scena è costellata di tagli e riscritture. Anche con la complicità di quell’antica lingua inglese che impone una traduzione. E tradurre è un po’ riscrivere. Amleto è il teatro, nel senso che consente qualunque variazione sul tema (teatrale), qualunque approccio. E comunque vada la gente lo riconosce. O almeno così si crede.
Forse quest’ultimo pensiero ha attraversato il regista Armando Pugliese nel metterlo in scena. Senza, forse, preoccuparsi troppo di una lettura critica. Che, personalmente, mi è sembrata approssimativa. La scelta della traduzione veloce e asciutta di Eugenio Montale, e severamente sforbiciata, non trova un adeguato e intellegibile adattamento scenico. Che non convince.
Dell’Amleto di Pugliese rimane l’interpretazione del bravissimo Alessandro Preziosi, il suo slancio emotivo, la generosità del suo donarsi, il suo credere profondamente nel personaggio che, senza pose di maniera propende per un giovane più cinico che dubbioso, più dinamico che malinconico, per niente distrutto da alcuna indecisione nel compiere tutte quelle sue mosse a sangue per vendicare l’assassinio del padre, nel fingere la propria follia per meglio denudare quella degli altri. Anche se non è solamente una storia di vendetta (origine del comportamento premeditato d’Amleto), il sentimento punitivo verso lo zio Claudio e la madre Gertrude che giustifichi la calcolata pazzia del giovane principe non trova il tempo di crescere nel suo animo sofferente, tanta è l’accelerazione degli eventi in scena. Al punto da sopprimere un personaggio non secondario come Fortebraccio, con gli echi esterni di guerra a lui legati, Liquidata in fretta anche la scena dell’arrivo dei comici e la loro rappresentazione che serve a svelare la colpevolezza dell’usurpatore e assassino Claudio, colpevolezza da leggersi sul suo volto e che dovrebbe darci il tempo di scoprirne lo sgomento.
Pur con dei pannelli frontali che s’aprono su paesaggi stilizzati di bianche lande, la messinscena soffre di un’ambientazione chiusa che circoscrive le azioni ad una dimensione domestica. Scelta legittima, ma ne soffre la visione spaziale che rende incongruenti le pareti laterali con le quattro porte da dove si entra e si esce, e la costrizione a far succedere tutto fra le quattro mura (vedi, per esempio, la scena dei becchini – qui solo uno – che tira fuori un cassettone dall’armadio facendone una bara). Eppure l’inizio era promettente per la comparsa di Amleto in camicione bianco su un lettino d’ospedale, in preda alla visione dello spettro del padre del quale ode la voce, e sulla rockeggiante musica dei Massive Attack.
L’intenzione del regista di conferire una dimensione da incubo, con i personaggi della corte danese partoriti dalla mente di Amleto e proiezione del suo inconscio, era felice. Ma subito il disegno si disperde e vira su altri registri. Senza ulteriori affondi. Ci rimane di Preziosi la sua recitazione febbrile, che sembra farsi paradigma dei giovani d’oggi, sospesi tra stanchi sentimenti e sterili rabbie.
Al Teatro Quirino di Roma fino al 7 febbraio.