L’amico-collega Antonio Carollo racconta

Borsellino non è stato solo magistrato e uomo di giustizia con un illuminato senso del dovere, ma anche uomo ironico e amico speciale
Antonio Carollo

Il 19 luglio del 1992 moriva, insieme agli uomini della sua scorta, nella strage di Via D’Amelio a Palermo, uno degli eroi simbolo della lotta alla mafia, per mano di “cosa nostra”: Paolo Borsellino. Un magistrato con un illuminato senso del dovere; un uomo di giustizia le cui parole sono rimaste scolpite nella memoria di tantissimi studenti; ed anche un grande amico, testimone alle nozze quand’erano ragazzi, del giudice Antonio Carollo, in atto magistrato tributario con la qualifica di presidente di una Sezione Regionale della Commissione Tributaria, che abbiamo raggiunto nella sua casa a Sferracavallo, frazione balneare di Palermo per farci dare, insieme al canto delle cicale e 40 gradi all’ombra, la sua testimonianza.

 

Dottor Carollo, grazie per essersi offerto di delineare il profilo di Paolo Borsellino.

«La ringrazio per l’occasione che mi avete dato voi e quelli di Avvenire di ri-parlare del collega Paolo, cui mi legava, e ancora mi lega (anche se è nell’al di là), un rapporto di affettuosa e duratura amicizia. L’ultima volta che ho avuto l’onore e l’onere di commemorarlo, quale componente della Giunta Distrettuale di Palermo dell’ANM (Associazione Nazionale Magistrati), risale niente meno che al primo anniversario della sua morte prematura, ossia 22 anni fa al Palazzo di Giustizia di Palermo».

 

Cosa disse in quell’occasione?

«Quello che potrei dire anche ora e cioè che è stato un magistrato speciale, illuminato, maturo, impegnato in prima linea, con pochi altri, sul fronte nobile della lotta alla criminalità mafiosa. Verso di lui abbiamo tutti un debito di riconoscenza particolare per la sua alta testimonianza di attaccamento al dovere, svolto fino all’ultimo giorno, nonostante i rischi concreti».

 

Era consapevole d’essere nel mirino della mafia?

«Sì, soprattutto dopo l’uccisione dell’amico e collega Giovanni Falcone, del quale aveva raccolto parte dell’“eredità”. Un giorno disse a un giornalista: “Cammino con la morte attaccata alle suole delle scarpe».

 

Che ricordi ha di quel tragico 19 luglio del ’92, in cui persero la vita sia il magistrato che i “picciotti” della scorta?

«Non posso dimenticare che la mafia lo soppresse con inaudita violenza, mentre compiva il suo consueto gesto di affetto e di amore nei confronti della madre anziana che andava con regolarità a trovare».

 

Che memorie ha della sua persona?

«Le dico solo che è stato uno dei miei migliori amici, un uomo completo, empatico e simpatico. E ancora oggi, a distanza di tanti anni, è uno dei magistrati più amati e considerati, per la sua alta missione, per il suo esempio luminoso e il suo eroismo portato fino al sacrificio estremo».

 

Ha da svelarci un aneddoto su di lui?

«Per le sue particolari doti di sensibilità è stato in grado di accattivarsi pure la fiducia di alcuni pentiti. Un giorno, era il 6 maggio del ’92, il pentito Vincenzo Calcara di Castelvetrano gli confidò che la mafia gli aveva dato l’ordine di ucciderlo e lui rispose: “È bello morire per ciò in cui si crede”».

 

Che rapporto aveva con la sua famiglia?

«Ricordo il tono emozionato quando parlava dei suoi figli: della piccola Lucia, sempre tenera e fragile, di Fiammetta, più birichina, e di Manfredi, amante del calcio e ragazzino vivace ma sfuggente per la sua età».

 

E con gli amici?

«Quando entrava a casa nostra, nelle varie occasioni conviviali, il suo sorriso sornione sembrava dire a tutti che nulla è più importante del calore umano, degli amici, della famiglia, in cui certamente la fatica del giorno si annulla. Lo comunicava scherzando su tutto, non prendendo sul serio i problemi che gli amici comuni manifestavano. Non era sempre allegro, ma certamente ironico, pieno di battute, e come lui pochi erano fieri della propria sicilianità».

 

Amava anche Palermo?

«In modo incondizionato. Diceva: “Amo Palermo, più la disprezzo e più la amo”. Tant’è che neanche il disprezzo che provava per chi “lo stava tradendo” lo annientò. Fu invece la molla che lo portò a parlare ai giovani con parole che rimarranno scolpite nella memoria della storia. Coi suoi discorsi agli universitari si elevò in maniera grandiosa. Trasmise a tutti, e volle rimarcarlo, che la vita val la pena di viverla se si hanno i valor giusti in cui credere».

 

Tale messaggio sarà mai arrivato agli uomini di “cosa nostra”?

«Io credo proprio di sì. La mafia con la soppressione violenta di Borsellino, 23 anni fa, ha fatto male i suoi calcoli. Il sacrificio di Paolo, come quello di Giovanni e delle scorte, sta cambiando il volto della nostra società. È stato lampante a tutti, allora, e lo è ancor di più oggi, che stiamo vivendo un momento storico di grande rinnovamento. I giovani, che costituiscono il futuro, con una nuova coscienza civile prendono non solo le distanze dalla mafia, ma si mobilitano mettendoci la faccia contro la stessa. Si vanno rompendo le vecchie omertà, si moltiplicano i pentiti e i cittadini che collaborano con la giustizia. Si incomincia, insomma, ad acquisire la convinzione che la delinquenza mafiosa può essere isolata, combattuta e vinta».

 

Le bomba di Capaci e quella di via D’Amelio non hanno, quindi, chiuso la porta alla speranza e hanno incentivato il lavoro vostro di magistrati?

«Certamente. ll modo migliore per onorare la memoria di Paolo (così come di Giovanni e degli altri caduti) e di perpetuare la memoria, è quello di proseguire tutti (magistrati requirenti e giudicanti) nella strada da loro tracciata, e di testimoniare con generosità, in concreto, i valori e gli ideali in cui credevano con l’obiettivo di vincere la battaglia contro la Mafia nel più breve tempo possibile. La posta in gioco è altissima: la libertà dei cittadini onesti e il loro diritto di vivere pacificamente in una società senza paure».

 

Vuole aggiungere qualcos’altro per Borsellino?

«Che mi manca il mio amico fraterno. Ma come scrivemmo nella targa ricordo nel primo anno dalla sua prematura scomparsa: “Paolo vivrà, per sempre, da eroe, nei nostri cuori”».

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