L’amicizia spirituale secondo Aelredo di Rievaulx
Un modo di vivere l’amore di Dio per un cristiano è sicuramente l’amicizia spirituale. Basta pensare che nella Parola di Dio l’amicizia ci viene presentata come un dono divino (un chàrisma); Dio premia il giusto dandogli un amico: “Un amico fedele è una protezione potente, chi lo trova, trova un tesoro. Per un amico fedele non c’è prezzo, non c’è peso per il suo valore. Un amico fedele è un balsamo di vita, lo troveranno quanti temono il Signore” (Sir 6, 14-16).
Gesù, poco prima della sua passione e morte, cosciente che il tempo che gli restava per stare con i suoi era ormai quasi scaduto, volendo lasciare loro quelle parole-testamento che nascono dal profondo del cuore e che non dovranno mai più essere dimenticate, si manifestò loro come un amico tra amici: l’icona dell’amico. Non come un fratello, perché tra fratelli ci può essere sicuramente amore, ma anche disistima, indifferenza, persino odio; tra amici no, sarebbe una contraddizione. Queste furono le sue parole: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi. Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi…” (Gv 15, l3-16).
Parole in cui troviamo tutti gli elementi tipici dell’amicizia: la scelta, il numero ridotto, la confidenza, l’apertura totale, l’essere disposti a dare la vita per l’altro. Quando Dio si è fatto come uno di noi, in carne e ossa, e ha voluto esprimersi in un modo intelligibile alla nostra esperienza umana, ci ha detto che era un amico fedele fino alla morte.
Nella storia della Chiesa sono stati molti, sin dai primi tempi, coloro che hanno vissuto questa esperienza umano-divina dell’amicizia. Ricordiamone alcuni più conosciuti: Agostino, Francesco d’Assisi, Tommaso d’Aquino, Teresa d’Avila, Carlo de Foucauld, Pio da Pietralcina, ecc., tanto per limitarci a qualche esempio e a cristiani riconosciuti dalla Chiesa come santi o beati, cioè, modelli sicuri. Ma, ne potremmo citare molti di più. E poi ci sarebbe l’infinito numero di altri cristiani, famosi o non, dei secoli passati o dei nostri giorni, anche se non hanno avuto, almeno finora, il riconoscimento ufficiale della loro santità.
Vorrei soffermarmi ora su un caso particolarmente significativo: il beato Aelredo di Rievaulx, abate cistercense. È un caso speciale perché, caso rarissimo nella storia della spiritualità cristiana, soprattutto della Vita consacrata, scrisse tutto un libro sull’amicizia tra i suoi monaci come cammino verso la santità: De spiritali amicitia (Sull’amicizia spirituale)1. Ricordarlo noi, che veniamo da un’epoca in cui soltanto nominare il tema dell’amicizia nella vita comunitaria faceva pensare alle peggiori conseguenze spirituali e morali, è quanto mai importante2.
Cenni di storia
Aelredo, chiamato “il Bernardo inglese”, nacque a Hexham (Scozia) nel 1110, da una famiglia di preti cattolici. A Hexham e poi a Durham, studiò latino e frequentò le prime amicizie. Nel 1124 cominciò una brillante carriera alla corte del re David I di Scozia. Nel 1132, a 22 anni, era già economo generale della corte. Diventò presto confidente del re e amico dei suoi figli. In questo periodo lesse il Lelio di Cicerone3. La sua competenza, amabilità ed esuberante affettività, gli procurarono un successo straordinario nell’ambiente di corte. Il futuro si presentava quanto mai promettente. Fu il suo periodo “mondano”.
A motivo di una missione diplomatica a York, visitò due volte l’abbazia cistercense di Rievaulx, da poco fondata. Restò molto impressionato della povertà e fraternità che regnava tra i monaci e vi entrò come novizio. Seguirono sette anni dedicati allo studio e alla preghiera, in cui intrecciò le prime amicizie monastiche (Simone, Ugo, Gualtiero…). Nel 1142, rientrando da un viaggio a Roma, dove era andato con una delegazione per trattare col Papa la questione del nuovo arcivescovo di York, a 32 anni fu nominato maestro dei novizi; rimase in carica due anni.
Fu in questo periodo che, su ordine di san Bernardo, scrisse la sua opera più importante, Speculum caritatis (Lo specchio della carità), e iniziò un primo abbozzo dell’opera più celebre, L’amicizia spirituale, la cui stesura definitiva vedrà la luce dopo vent’anni. Nel 1144, a 34 anni, venne eletto abate della nuova fondazione di san Lorenzo di Rivesby, filiale di Rievaulx, nel Linconshire. Nel 1147, a 37 anni, fu eletto abate di Rievaulx, ufficio nel quale rimase per vent’anni, fino alla morte, avvenuta il 12 Gennaio 1167, a 57 anni.
Dopo la sua morte, la fama di santità si diffuse presto; e sulla tomba, molto venerata, fu scritto: “Et cito quam legitur, tam cito relegitur” (appena lo leggi, subito lo rileggi): una grande lode per uno scrittore!
Un’intensa attività
La sua attività fu enorme; non solo perché la comunità abbaziale era grandissima (giunse fino a 640 membri!), ma anche per i suoi contatti con la Chiesa e la società del suo tempo. Ebbe rapporti con vescovi, politici, abati, scrittori… Aveva la fama di essere dolce, equilibrato, buon predicatore ed amministratore, saggio direttore spirituale, tutto quanto mescolato a un grande senso dell’umorismo (il che non guasta!).
Nei suoi studi, le fonti furono: la Bibbia, Agostino, Bernardo, Guglielmo di St. Thierry. Possiamo dire che fu l’esempio dell’umanista cistercense. Come padre dei monaci, potremmo riassumere così la sua azione: portare alla perfezione della carità attraverso l’amicizia vissuta4.
A volte, Aelredo è stato accusato di essere stato troppo ottimista nelle sue affermazioni, quasi un illuso. Sta di fatto che alcuni anni dopo la sua morte, l’abbazia passò, a quanto sembra, per una grave crisi, con molte defezioni. Da alcuni documenti del tempo, emanati dalla Santa Sede, risulta persino l’ordine di allontanare dalle parrocchie gli ex-monaci provenienti da Rievaulx.
È difficile, però, sapere se questa crisi si debba attribuire al metodo aelrediano, un po’ troppo idealista, oppure a ragioni di altra indole. Come, ad esempio, la sua malattia: gravi disturbi renali con dolorosissimi calcoli, che afflissero l’abate per lunghi anni, ai quali si aggiunsero negli ultimi dieci anni una forma di artrite e, l’ultimo anno, una tosse secca e insistente5. O piuttosto al numero troppo grande e cresciuto troppo in fretta dei monaci, che non potevano essere ben formati, ecc.
Due trattati fondamentali
Di Aelredo scrittore ci restano circa 180 manoscritti, a cui bisognerebbe aggiungere diverse centinaia di lettere che però sono andate perdute. Per capire il suo trattato sull’amicizia spirituale bisogna collegarlo a Lo specchio della carità, scritto tra il 1142-11436. Almeno per due ragioni: perché è l’opera prima e fondante, che contiene le linee maestre del suo pensiero, e soprattutto perché è un passaggio obbligato per comprendere L’amicizia spirituale7. Lui stesso dice che lo Specchio finisce con un inno all’amicizia che bisognava approfondire ulteriormente8.
Lo Specchio, infatti, che è una collezione di conferenze ai novizi, deve essere letto come la parte prima, teologica e psicologica, del trattato dell’amicizia spirituale9. Quindi, L’amicizia spirituale va considerata come un tentativo di mettere assieme la Bibbia e Cicerone; però, mentre quest’ultimo resta in una visione terrena, Aelredo vedrà l’amicizia umana come una strada verso l’amicizia divina10.
Lo specchio della carità è una vera “storia dell’amore”, divisa in tre libri: 1) eccellenza della carità; 2) obiezioni e ostacoli alla carità; 3) psicologia e pratica della carità. Si conclude con l’affermazione che l’amore perfetto si godrà soltanto in cielo; però, già sulla terra, se ne può avere la gioia, quando si ama con la ragione e con il sentimento, come succede con gli amici. A immagine di Dio, tale fruizione degli amici deve realizzarsi con saggezza (senza vanità), con santità (senza peccato) e con giustizia (senza adulazione). A tali condizioni, l’amicizia sarà “la perfezione della carità sulla terra”11. L’amicizia dunque diventa non solo “uno”, ma “il miglior modo” di vivere la carità.
L’amicizia spirituale, riscritto e completato verso il 1160, per rispondere alle richieste dei suoi monaci, è quindi una vera seconda parte de Lo specchio. In quest’ultimo si parla dell’amore di Dio; in quello, dell’amore al prossimo. È formato da tre dialoghi o libri. Fu largamente imitato, copiato e sunteggiato da autori medioevali. Aelredo cerca di dare un’impostazione teologica all’amicizia umana. Le fonti dell’opera sono: il Lelio di Cicerone, la Bibbia, i Padri (tra i quali, Agostino è il preferito, e poi Bernardo, Ambrogio, Gerolamo) e Lo specchio12.
Passiamo ora a vedere le principali affermazioni di Aelredo ne L’amicizia. Dopo un breve Prologo, in cui racconta di aver letto il Lelio già prima di essere monaco e di aver cercato di vivere cristianamente l’amicizia, aiutato della lettura della Bibbia e dei Padri (nn. 3-6), cominciano i tre libri.
Libro I: Natura e origine dell’amicizia
Il dialogo tra Aelredo e Ivo, un novizio, comincia con la sintesi della sua visione umano-cristiana dell’amicizia: “Aelredo: Eccoci io e tu e, lo spero, terzo tra noi Cristo” (I 1)13. Eco delle parole di Cristo: “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Mt 18, 20). È chiaro dunque, sin dal principio, che, sebbene terrà conto di Cicerone, l’amicizia non potrà giungere alla sua pienezza se non dentro una visione e un’esperienza cristiana. Cicerone sarà come il pedagogo che condurrà fino a un certo punto verso Cristo; ma, l’amicizia perfetta la si potrà soltanto raggiungere in Cristo. Ivo chiede allora di sapere cosa sia l’amicizia (I 5) e, più teologicamente, come essa debba essere intesa: “Tra noi cominci in Cristo, si sviluppi in Cristo e ponga in Cristo il suo fine e la sua perfezione” (I 8; cf. II 20)14.
Già nel primo dialogo e fin dall’inizio del medesimo, Cristo appare come la chiave per capire l’amicizia cristiana. Due volte ripete tutta la spiegazione: l’amicizia spirituale nasce in Cristo, si conserva nella conformità con Lui, ha Lui come fine e perfezione (I 8); o, come dirà poco più avanti, nasce in Cristo, cresce in Cristo, termina in Cristo (I 10). E, se l’amicizia deve essere “cristiana”, non può non essere “trinitaria”, perché Cristo è immagine del Padre, Sua Parola, e il Loro amore è stato comunicato a noi dallo Spirito Santo (cf. Rm 5, 5; 2 Pt 1, 4). Perciò si potrà dire che l’amicizia umana, vissuta cristianamente, è un riflesso in questo mondo dell’amore intra-trinitario.
La definizione di amicizia, dunque, data da Cicerone15 non basta, perché non ha conosciuto Cristo. Aelredo dà una sua prima definizione: “L’amicizia è quindi quella virtù che lega gli animi con una dolce alleanza d’amore e di più cose fa un’intima unione” (I 21).
Chiarisce subito che carità e amicizia non s’identificano. L’orizzonte della carità è più vasto, perché ci obbliga ad amare anche i nemici e non esige la confidenza e reciprocità che, invece, suppone l’amicizia: “Amici invece sono solo coloro a cui non temiamo di aprire il nostro cuore e ciò che vi è in esso. Ed essi a loro volta si stringono a noi con la stessa legge sicurissima della fedeltà” (I 32).
Neanche qualsiasi amicizia umana è vera amicizia. Lo è solo l’amicizia spirituale, cioè, quella che ha luogo tra i buoni. Infine, Aelredo così riassume e completa la definizione ciceroniana: “L’amicizia spirituale tra i buoni sorge da somiglianza di vita, di costumi e desideri, cioè è accordo nelle cose divine e umane con benevolenza e carità. Definizione che mi pare sufficiente ad esprimere l’amicizia, qualora si intenda la carità secondo il nostro modo” (I 46-47).
Cioè, come vita divina in noi (1 Gv 4, 8.16; Rm 5, 5; 2 Pt 1, 4), l’amicizia cristiana dunque è la forma più perfetta della carità, anche se la carità – come dicevamo – ha un orizzonte più vasto, perché non si limita al suo frutto più perfetto. In conseguenza, l’amicizia umana vissuta in caritate (secondo ciò che significa e suppone l’amore cristiano) è il vero traguardo, il più sublime, sia dell’amore in genere che dell’amicizia umana stessa.
La sorgente dell’amicizia è la natura; poi l’esperienza non ha fatto altro che accrescere questo sentimento; e, infine, l’autorità della legge lo ha regolato (I 51). Iddio, facendo l’uomo socievole (Gn 2, 18), ha messo nel suo cuore la base della carità e dell’amicizia sin dall’inizio (I 57). Purtroppo, il peccato fin dal principio ci ha fatto distinguere tra carità e amicizia, poiché a tutti, compresi i nemici, dobbiamo carità ma l’amicizia è possibile soltanto tra i buoni, non con i cattivi (I 58-59).
In conclusione, se l’amicizia vera si trova solo fra coloro che si amano secondo virtù, si può dedurre che, se Dio è amore, Dio è amicizia? Aelredo non accetta né rifiuta la risposta affermativa: “È una espressione non usata, né ha l’appoggio specifico della Scrittura. Tuttavia ciò che viene scritto della carità non dubito di applicarlo all’amicizia, perché: chi vive nell’amicizia, vive in Dio e Dio in lui (1 Gv 4, 16)” (I 69-70).
Più tardi, san Tommaso d’Aquino concepirà, invece, tutta la vita spirituale del cristiano come un certo rapporto di amicizia soprannaturale con Dio. E santa Teresa d’Avila vedrà la vita di preghiera come un discorrere di amicizia restando spesso da soli con Colui che sappiamo ci ama16. Aelredo dunque lo pensa, ma non osa dirlo apertamente.
Libro II: Vantaggi, limiti e meta dell’amicizia
Il nuovo colloquio si svolge fra Aelredo, Gualtiero e poi Graziano, parecchi anni dopo il primo. Il maestro comincia con un commosso ricordo dell’amico Ivo (II 5-6), ora morto.
Vantaggi dell’amicizia
Aelredo inizia facendo il più grande elogio dell’amicizia: “Quaggiù non c’è nulla di più santo da desiderare, nulla di più utile da cercare, nulla più difficile da trovare, niente più dolce da provare, niente più fruttuoso da conservare dell’amicizia” (II 9).
Più ancora: “Essa dà sapore a tutte le virtù; con la sua forza reprime i vizi: tempera le avversità e modera la prosperità; così tra i mortali nulla può essere piacevole senza un amico. Si può paragonare ad una bestia chi non abbia uno con cui gioire nelle ore liete e piangere nelle tristi; uno con cui sfogare ciò che pesa nel cuore, a cui comunicare le idee straordinarie e sublimi che gli venissero. ‘Guai a chi è solo: quando cade non avrà chi lo sollevi’ (Qo 4, 10). Ed è proprio solo, chi non ha un amico” (II 10-11).
Non si poteva dire di più: non è umana la vita di colui che non ha un amico! E non dimentichiamo che sta parlando a monaci e sulla vita monastica. E non parla di un affetto (l’amicizia) rivolto a tutti in genere; del resto sarebbe impossibile in un monastero con centinaia di membri.
E aggiunge: “Quale felicità, invece, quale sicurezza e gioia avere uno ‘con cui parlare come a te stesso’ (cf. Cicerone, Laelius, cit., p. 22); uno a cui non temi di confessarti se sei caduto; cui non arrossisci di rivelare i progressi nelle cose spirituali, uno al quale puoi affidare tutti i segreti del cuore e scoprirne i progetti! Che c’è di più bello che unire cuore e cuore, fare di due una sola cosa, senza temere violenza, senza sospetti? Senza che uno si lamenti d’essere corretto dall’altro, e l’uno debba rimproverare l’altro di lodare per adulazione….
‘L’amico, dice il Sapiente (Sir 6, 16), è una medicina di vita’. Come è vero! Non c’è infatti medicina più forte o più efficace o più eccellente per le nostre ferite, in tutte le cose terrene, che avere chi soffra con noi in ogni sventura, e goda nei successi. Così che, come dice l’Apostolo (Gal 6, 2), ‘unendo le loro spalle portano insieme i loro pesi, o meglio ognuno trova più leggera l’offesa fatta a sé che quella fatta all’amico’.
L’amicizia rende dunque la prosperità più splendida e l’avversità più leggera (Cicerone, op. cit., p. 22), dividendola un po’ ciascuno. L’amico è dunque la medicina migliore della vita…, l’amico è necessario….
Per questo gli amici, come dice Cicerone (Cicerone, op. cit., p. 23), anche lontani sono presenti, anche poveri sono ricchi, anche se invalidi sono robusti e, quel che è ancora più difficile, anche morti sono vivi.
L’amicizia è dunque la gloria dei ricchi, la patria degli esuli, la fortuna dei poveri, la medicina dei malati, la vita dei morti, il vigore dei sani, la forza dei deboli e il premio dei robusti. È così grande l’amore, il ricordo, la lode e il desiderio che si ha degli amici (Cicerone, op. cit., p. 23), che la loro vita è giudicata degna di lodi e la loro morte preziosa. Ancor più, l’amicizia è un gradino prossimo alla perfezione che consiste nell’amore a Dio e del prossimo; in modo che l’uomo da amico dell’uomo diviene amico di Dio: come dice il Salvatore nel vangelo (Gv 15, 15), ‘Ormai non vi dico più servi, ma amici’” (II 11-14).
Ma, in quale senso “l’amicizia è la migliore scala alla perfezione” (II 15), o “l’amicizia è un gradino all’amore e alla conoscenza di Dio”? (II 18). Di nuovo Aelredo distingue fra carità e amicizia: la carità si rivolge a tutti e, con essa, la benevolenza e la beneficenza. L’amicizia, invece, suppone corrispondenza, reciprocità e intimità, confidenza, che non vengono esigite dalla carità giustamente vissuta.
In altre parole, l’amicizia cristiana è sempre carità; ma, la carità non sempre si manifesta come amicizia. Proprio per questo, però, l’amicizia appare come la migliore realizzazione della carità, perché aggiunge alla carità in genere, degli elementi più profondi e personali di comunione (cf. II 18-20).
E, in tutto questo, Cristo è il centro dell’amicizia per due ragioni: perché è Lui a promuovere, ispirare e perfezionare l’amicizia umana vera, e perché Lui stesso ci si è presentato come amico da amare (II 20). Così, l’amico che ama l’amico: “nello spirito di Cristo, diventa con lui un solo cuore e una sola anima (cf. At 4, 32). E, salendo i gradini dell’amore verso l’amicizia di Cristo, diventa un solo spirito con lui, in un mistico bacio” (II 21).
Bacio spirituale, non fatto di contatto fisico, ma di affetto del cuore; non unendo le labbra, ma mescolando gli spiriti (III 26); gli amici credono di essere “quasi un’anima sola in diversi corpi” (II 26). L’amicizia umana è così un cammino verso l’amicizia con Cristo; e l’amicizia spirituale diventa un dono dello Spirito, un carisma.
Limiti e meta dell’amicizia
L’amicizia – dicono Graziano e Gualtiero – non significa, però, un’identità di volontà con l’amico fino al punto di peccare, né ricambiare ogni servizio o beneficio, né comportarsi con lui come con se stesso (II 28-31). E Aelredo aggiunge: “Cristo stesso ha stabilito il confine dell’amicizia dicendo: ‘Nessuno ha amore più grande di chi dà la vita per coloro che ama’ (Gv 15, 13). Ecco fin dove deve tendere l’amore tra amici, che vogliano morire uno per l’altro” (II 33).
Il confine positivo dunque è morire per l’amico, dare per lui la vita; il confine negativo è di mai peccare per compiacere l’amico (II 69). Il confine è chiaro: non è quello della semplice identità con l’amico, bensì quello tra il bene e il male. Ecco perché, l’amicizia vera non può esistere tra i cattivi o i pagani; ma, soltanto: “Può sorgere tra i buoni, progredire tra i migliori, consumarsi tra i perfetti” (II 35-41).
Questo, però, non significa che l’amicizia sia possibile solo tra i perfetti, ma sì tra coloro che hanno percorso ormai un certo pezzo di strada e continuano a correre verso la perfezione, anche se ancora non l’hanno raggiunta.
Libro III: La “grammatica” dell’amicizia
Il dialogo ha luogo all’indomani di quello precedente e con gli stessi interlocutori. Ha un carattere eminentemente pedagogico e usa ampiamente le osservazioni di Cicerone. Comincia con un preambolo: qual è la fonte o la sorgente dell’amicizia? La risposta è un po’ diversa da quanto ha detto nel Libro I, perché suppone ormai quanto finora detto: “La fonte e la sorgente dell’amicizia è l’amore: infatti ci può essere amore senza amicizia, ma non amicizia senza amore” (III 2). Un amore che, per essere spirituale, dovrà trovare il suo solido fondamento nell’amore di Dio e le sue esigenze (III 5). Si ritorna alla base: la carità cristianamente intesa; questa sarà la fonte di una amicizia giusta.
E si domanda di nuovo: dobbiamo ricevere nella nostra amicizia tutti quelli che amiamo? No, risponde, perché non tutti ne sono capaci: si deve amore a tutti, ma non amicizia. Per trovare la persona capace di amicizia perfetta, bisognerà salire quattro gradini: “Il primo è la scelta (electio), il secondo la prova (probatio), il terzo l’accettazione (admissio), il quarto è il perfetto accordo (summa consensio) sulle cose divine e umane con carità e benevolenza” (III 8).
Poi approfondisce, riassumendo praticamente nella “scelta” e nella “prova” i quattro gradini. Riguardo alla “scelta”, non va fatta con facilità, perché certi difetti rendono poi difficile l’amicizia. Vanno evitati: gli iracondi, a meno che non si sforzino di vincersi; una volta, però, fatta amicizia, vanno tollerati e rimproverati (III 15-18). Anche gli instabili e sospettosi, perché non hanno fedeltà, pace, fiducia (III 28-29). I chiacchieroni (III, 30). Infine, gli scandalosi, traditori, impuri, avari, ambiziosi e criminali (III 23-25, 28-30, 46, 59).
Anche se, realista come è, Aelredo dice che bisogna escludere solo gli incorreggibili. Perciò la correzione fraterna ha una parte importante nella pedagogia dell’amicizia, secondo lui. Ma, se questi difetti appaiono una volta iniziata l’amicizia? Va usata ogni cura perché si correggano; non ci si deve allontanare dagli amici, a meno che non succedano delle grandi offese,e, casomai, pian piano (III 40-41). Con l’ex-amico, poi, va mantenuta ad ogni modo la carità (III 44). La scelta dell’amico, per ultimo, deve cadere su uno che non sia troppo dissimile nel modo di vivere o troppo differente di carattere (III 30, 54-59).
Per quanto concerne la “prova”, nell’amico si debbono provare quattro cose (III 60-73): la fedeltà, perché è nell’avversità che si vede il vero amico; l’intenzione, per vedere cosa lui cerca in te; il criterio, cioè, il modo di pensare e giudicare, per capire cosa si debba dare o chiedere all’amico; la pazienza, per non addolorarlo, né fargli perdere l’amicizia.
E sulla “pratica” dell’amicizia, Aelredo avverte che gli amici siano tra loro semplici, comunicativi, arrendevoli e appassionati delle medesime cose. Si guardino dal sospetto. Siano amabili, sereni. Creino una certa uguaglianza, se uno è superiore all’altro in qualcosa (III 88-97). Siano generosi e benevoli, solleciti l’uno dell’altro, preghino vicendevolmente, soffrano e gioiscano l’uno per l’altro (III 99-102). Non dimentichino che il rispetto e la riservatezza sono ottimi compagni dell’amicizia; anche se questo non toglie che gli amici, proprio perché ognuno vuole il bene dell’altro, si devono ammonire e persino rimproverare, usando magari dolcezza e moderazione (III 102-108): “Nessuna esitazione dunque tra amici, nessuna finzione, che ripugna moltissimo all’amicizia. All’amico si deve dire la verità; senza di essa il nome di amicizia non vale più nulla” (III 109).
Alle volte sarà forse doverosa la dissimulazione, cioè, saper differire la pena o la correzione, senza approvare internamente la mancanza, a seconda del luogo, del tempo e delle persone; ma, mai tollerare la simulazione, cioè, consentire a qualcosa di inaccettabile (III 110-112).
Riguardo alle cariche e agli onori, va seguita sempre la ragione, non il sentimento; cioè, vanno affidati a coloro che vediamo più atti a portarli. Ma, se la virtù è pari “non disapprovo che l’affetto faccia il suo gioco” (III 114-116). Nessuno dunque pensi di non essere amato perché non è promosso: il Signore amava di più Giovanni, e ciò nonostante affidò la Chiesa a Pietro (III 117).
Poi, Aelredo racconta due delle sue esperienze di profonda amicizia. Qui si vede come le sue teorie non sono altro che il risultato della sua esperienza personale (III 126-127).
Congedandosi, l’abate ricorda che, chi non ama se stesso, non può amare un altro: perché l’amore di se stesso è la regola con cui ordinare l’amore del prossimo (cf. Lv 19, 18; Mt 22, 39). Perciò bisogna cominciare da se stessi a operare il bene e a purificarsi (III 128-129).
Conclusione
In conclusione, l’amicizia è possibile, anzi necessaria, anche tra i monaci. Partendo dalla sua base umana, deve essere vissuta secondo il modello che è Cristo con i suoi discepoli, e in tensione verso la pienezza dell’amore di Dio. Senza dimenticare che in questo mondo l’amicizia non è possibile con tutti, lo sarà però nell’eternità (III 133-134).