L’amica geniale: ultimo atto
È d’autore, la serie tv L’amica geniale, per il dialetto napoletano usato, che è radicale e forte, integrale e sottotitolato. Lo è per la grandezza dell’affresco, per i suoi dettagli curatissimi, dagli arredi ai costumi e alle profondità di campo; dai bui degli interni e delle strade, di notte, negli anni iniziali del racconto (i primi Cinquanta), ai colori giallastri e grigi del quartiere di periferia di giorno, squadrato e spoglio, dove accadono i fatti. Lo è per la luminosità non piatta delle sortite a Napoli centro, più tardi, e ancora di più per la luce viva, pulsante – da buon cinema – della puntata ad Ischia, ormai alla soglia dei Sessanta: la sesta delle otto totali della prima stagione.
Ma è anche d’autore, e tanto, L’amica geniale – dove questo vuol dire qualità, vuol dire serialità liquida tra piccolo e grande schermo – per la violenza raccontata e per la complessità (nobile) con cui vengono descritte due donne, più in generale la donna, ogni donna. Una violenza non solo, non tanto, di pistole o di coltelli, quanto comportamentale, relazionale, di prevaricazioni rionali e domestiche, di egoismi e paura, frutto anche dell’ignoranza, della miseria e di una conseguente considerazione salvifica del denaro. Di una sua completa idolatria. Quando questo è strumento e causa, invece, delle bruttezze e delle ingiustizie che strisciano senza sosta dentro molte sequenze della serie, diretta da Saverio Costanzo a partire dal romanzo omonimo, potente, emozionante, di Elena Ferrante.
Non è televisione superficiale, dunque, omologata o edulcorata, L’amica geniale, perché rispetta il romanzo di partenza – e i temi dell’emancipazione femminile e della cultura come arma contro il degrado – cari all’autrice volutamente celata dietro questo nome – fino a tenere testa alla pagina scritta, seppure la serie stia passando in chiaro su Raiuno, il martedì sera, dal 27 novembre scorso, tra l’altro con ascolti altissimi, sempre intorno al 30% di share.
È la storia di due bambine nate intorno alla metà degli anni quaranta: Raffaella, detta Lila, ed Elena, detta Lenuccia, cresciute in mezzo a scatoloni di mattoni imbottiti di povertà, con gli androni urlanti e le strade piagate da una lotta tra chi è più disgraziato e chi lo è un pizzico di meno, magari perché ha trovato il modo di non esserlo – discutibile e sbagliato – grazie a collusioni con la criminalità (sempre in agguato quando la miseria chiama), o più semplicemente perché ha sfruttato il prossimo fino a sbranarlo, a calpestarlo senza pietà. Sono bambine sveglie, Lila e Lenuccia, che diventano amiche da subito – alla scuola elementare – e poi donne attente alle storture, agli errori e alle ferite del loro piccolo mondo non romantico, ma cupo, indifeso e fragile, rabbioso e abbandonato a se stesso. Non smetteranno mai di essere unite, insieme, seppure siano diverse, raccontandoci come una serva all’altra per vivere, per avanzare, per scoprire la propria identità e un mondo, l’Italia, che nel frattempo, parallelamente al loro lungo viaggio, cambierà, e non si può dire in meglio. Ci dicono quanto sia meraviglioso e difficile essere donna, mostrando come la sua condizione sia cambiata nel tempo, certo, ma anche quanto questa sia soggetta sempre ad un pericolo, quanto sia esposta alla superficialità e all’abuso, piccolo o grande che sia.
Lila è il traino: ha istinto e talento selvaggio, una creatività alimentata dalla determinazione chiusa dentro i suoi silenzi e nei suoi occhi neri accigliati. Sa difendersi da tutto e da tutti, anche se non riesce ad impedirsi di soffrire. Elena è riflessiva e profonda osservatrice della sua preziosa amica. È lei che narra i fatti al passato (con la voce di Alba Rohrwacher) e si fa trasportare dall’altra, guidare e illuminare da Lila, accorgendosi della capacità che questa ha di guardare lontano, di vedere vie di uscita nella nebbia. Insieme comprendono come i libri siano uno strumento prezioso per fuggire dalla loro condizione di sofferenza e umiliazione: intuiscono che leggere, e quindi capire, sapere, possa rompere il circolo di morte che quel sistema malato impone. Anche se Lila alle scuole medie non può andare, perché suo padre, calzolaio, non ha i soldi per mandarla, ed anche se li avesse, forse, non la iscriverebbe, perché la debolezza sociale laggiù è tanta che nemmeno si ha fiducia, o speranza, nella scuola come trampolino per sortire dalle sabbie mobili. E allora Lia legge da sola. Da sola fa tutto.
Il come eravamo che dipinge insieme a Lenuccia non è nostalgico, morbido, non è Baarìa di Tornatore, L’amica geniale, anche se visivamente lo ricorda, seppur con tinte di colore più fredde. Gli manca la commedia, la gioiosa vitalità e la Fiat 1100, o le canzoni, o il televisore e il boom economico che entrano in scena non portano allegria, o se lo fanno dura pochi secondi, tutto irrimediabilmente si macchia, si sporca, si spegne. Forse, però, questa difficoltà costante serve a nutrire l’amicizia mai banalizzata tra due donne, mai addolcita di sentimentalismi, ma invece articolata, sottile e muscolosa, tutta femminile e perciò bellissima, toccante. Prima costruita dalle righe di Elena Ferrante, e poi trasformata in buona serialità televisiva popolare dal regista e dagli sceneggiatori. Al punto che una seconda stagione de L’amica geniale è già stata ufficializzata, e gli altri capitoli della saga letteraria avranno un corrispondente televisivo. Si spera all’altezza della prima stagione.