L’America tra reazione e cambiamento
I nuovi equilibri del Congresso americano non sono una novità: stessa sorte è toccata a Clinton e Bush. Obama battuto dalla recessione economica e non dai Tea party. Intervista a Pasquale Ferrara
Le elezioni americane di medio termine, che hanno rinnovato parte dei rappresentanti al Congresso hanno visto la vittoria dei repubblicani alla Camera, mentre i democratici hanno conservato la maggioranza in Senato. Quali scenari si aprono in quell’America riformista e coraggiosa che aveva voluto come primo cittadino Barack Obama? Si è chiusa la stagione delle riforme? Abbiamo chiesto una valutazione della situazione Usa a Pasquale Ferrara, esperto di relazioni internazionali.
Cosa cambierà nella politica americana dopo queste elezioni?
Primo elemento da precisare è che la politica estera di Obama è improbabile che cambi qualcosa, soprattutto sui punti nodali dell’Afghanistan e del Medio Oriente. Il congresso, anche se di differenti colori ha posizioni abbastanza vicine all’amministrazione. Nel passato, ad esempio quale che sia stata la maggioranza, il congresso è stato sempre molto vicino alle ragioni di Israele e quindi questo risultato non sposta nulla in questo senso. L’altra questione è il rapporto con la Russia e le problematiche relative al disarmo strategico e ai negoziati. Qui i repubblicani sono più guardinghi, ma il loro peso è relativo perché è il Senato a dare gli indirizzi di politica estera e a ratificare i trattati, e qui la maggioranza è democratica.
Cosa succederà invece alla politica interna?
Qui si apre un territorio sconosciuto soprattutto per l’aspetto delle grandi riforme varate da Obama, come quella della sanità e di Wall street. Le leggi comunque sono state approvate e per disfarle bisognerebbe approvarne altre. Ma pensare che si tenti di approvare una controriforma sanitaria mi sembra improbabile. Ci sarebbero tante incertezze perché la maggioranza è diversa tra Camera e Senato. Questo creerà invece problemi ad altre riforme in sospeso, come quella del sistema dell’educazione e su questo ci sarà battaglia. Non bisogna però fare drammi di questa coabitazione tra un presidente di un colore e un congresso di un altro. Quasi tutto il secondo mandato di Clinton è stato così, idem nell’ultima parte del mandato di Bush: questa situazione nel sistema americano è fisiologica.
Ma come si lavorerà in un congresso diviso?
Ci sarà un maggior compromesso. Fin dal primo discorso di insediamento Obama ha cercato di aprire un dialogo con i repubblicani, loro non hanno accettato e da un punto di vista elettorale, non politico, hanno avuto ragione. Hanno sferrato un attacco radicale rifiutando ogni forma di dialogo e hanno cavalcato il vento della crisi, provocata in gran parte da disattenzioni repubblicane e non da due anni di governo Obama. Certo, ci sarà maggiore attenzione nel varare nuove iniziative. Il rischio, se le posizioni restano in una polarizzazione radicale, è che si entri in una fase di paralisi o si blocchi la stagione delle grandi riforme.
Obama ha deluso gli americani? La stagione di cambiamento da lui inaugurata non è piaciuta?
Non c’è un particolare collegamento tra le riforme e la reazione come vorrebbe far credere il movimento del Tea party. Gli americani votano su cose concrete: quello che conta è il bassissimo tasso di ripresa dell’economia che si attesta al 2 per cento e l’alto tasso di disoccupazione che ha superato, secondo alcune stime il 15 per cento, cosa inedita per l’America. Bisogna andare alla crisi del 29 per trovare questi indicatori a due cifre. C’è poca ideologia e molta delusione per l’economia dietro il voto. In America poi vige la regola che chi è al governo si assume le responsabilità di quello che accade e non si possono accusare i repubblicani, cosa che Obama ha provato a fare-, ne dire che è colpa delle banche, della crisi finanziaria. Il politico di turno è responsabile nel bene e nel male.
Ha parlato del movimento Tea party. È un modello esportabile in Europa per catturare consensi ed esprimere dissenso verso i propri rappresentanti?
Il movimento è molto americano e difficilmente esportabile. Raccoglie quella tendenza della cultura politica americana che si rifà al presidente Jackson, cioè fiducia illimitata nelle possibilità degli individui e scarsissima fiducia nell’intervento dello Stato nell’economia e nella società.Nessun paese europeo in questo momento vuole lo stato minimo, anzi si vuole che il Governo intervenga per salvare posti lavoro e proteggere l’economia dalla concorrenza sleale. Un punto di contatto può essere identificato nell’accento un po’ populista: le piccole patrie, la comunità chiusa, ma anche questo fenomeno europeo è notevolmente diverso da quello americano. Non è un’esperienza che ci appartiene.