L’America Latina e il nuovo inquilino della Casa Bianca
Che alla Casa Bianca ci sia Donald Trump o Joe Biden non è indifferente a nessuno. Un po’ ovunque, infatti, si staranno rivedendo i piani, sia in Europa che in Medio Oriente, in Asia e, ovviamente, anche in America Latina.
Eppure, quando si osserva con attenzione la politica estera Usa degli ultimi 20 anni appare chiaro che la regione latinoamericana non è stata uno dei temi principali dell’agenda della Casa Bianca. Intanto, perché su nessun tema di particolare sensibilità planetaria, dalla pace al terrorismo, dai cambiamenti climatici al commercio mondiale, la regione ha svolto un ruolo di rilievo, o ha influito a smuovere l’ago della bilancia. L’ultimo intervento degno di nota fu quello del brasiliano Inácio Lula da Silva, quando propose una mediazione sulla questione dei piani nucleari iraniani. Ma erano tempi in cui il Brasile era membro attivo della pattuglia di Paesi emergenti – il Brics – che avevano da proporre al mondo una agenda tematica alternativa e una ricetta di sviluppo fondata sul mutuo beneficio e non solo sul beneficio del più forte. Erano anche i tempi del multilateralismo che, dopo la parentesi di George W. Bush, tornava ad affacciarsi sull’onda dalla leadership Cina-Usa, di cui l’accordo di Parigi sul clima è stato un effetto.
Tornando all’America Latina, tanta scarsa attenzione si dovrà al fatto che è cambiato qualcosa in merito agli interessi statunitensi nella regione? Parrebbe di no: una scorsa allo scambio commerciale rivela che con più di 800 miliardi di dollari tra importazioni ed esportazioni il commercio statunitense con l’America Latina supera quello con l’Europa, che si ferma attorno ai 700 miliardi. Quello che invece è cambiato sono gli strumenti con i quali Washington incide nella realtà latinoamericana. Wall-mart, Microsoft, la compagnia assicurativa Aig, l’agenzia di rating Moody’s o la Cnn hanno preso il posto della Cia e del Pentagono nella gestione della politica della Casa Bianca in Latinoamerica. Pur nella sua bizzarra imprevedibilità, Trump ha dedicato più tempo a determinare il nuovo direttore della Banca Interamericana di Sviluppo che ad altre questioni politiche regionali, fatta eccezione per il muro col Messico e la questione venezuelana. Quando, seguendo i suoi progetti, Trump ha deciso di trasferire l’ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme, solamente tre stati latinoamericani lo hanno “seguito”, cioè hanno obbedito alle istruzioni ricevute: Honduras, Guatemala e Paraguay. Nel caso dei paraguayani, il governo di Mario Abdo ha poi fatto ben presto marcia indietro, nel rispetto delle indicazioni Onu in materia. Nessun’altra cancelleria latinoamericana ha voluto imbarcarsi seriamente in una avventura dalle implicazioni poco chiare, se non discutibili.
L’ultima iniziativa politica statunitense di un certo rilievo nei confronti dell’intero continente americano, fu la proposta dei primi anni 2000 di istituire una grande area di libero scambio che andasse dall’Alaska alla Terra del Fuoco (Alca), con la sola eccezione di Cuba. Ma nel summit di Mar del Plata (Argentina) l’idea venne definitivamente affondata, perché contraria allo spirito politico che soffiava in quegli anni nella regione. Si può ragionevolmente pensare che a partire da quel momento la diplomazia statunitense ha smesso di interessarsi di una regione che, tutto sommato, non dava grandi grattacapi politici né faceva correre grandi rischi, anche quando la Cina ha cominciato ad assumere un ruolo sempre più importante come partner commerciale. D’altra parte, la politica dei governi latinoamericani non è mai riuscita a coagularsi intorno ad un progetto comune e ad assumere dunque un certo protagonismo. Una tendenza all’ordine sparso che negli ultimi anni si è ancor più accentuata.
Diciamo allora che la regione osserva con attenzione cosa accadrà negli Usa per gli effetti indiretti che si produrranno sul piano globale: la ripresa del multilateralismo, i contrasti commerciali con la Cina, la pace e la sicurezza, l’atteso ritorno di Washington agli accordi di Parigi sul clima, il che significa riprendere la lotta contro i cambiamenti climatici in modo globale. Si direbbero le stesse attese e premesse che esistevano quando Barack Obama iniziò il suo mandato presidenziale. E non è probabilmente un caso che tra due mesi lo farà chi ne fu il vicepresidente per otto anni, Joe Biden. Ma – credo – con una differenza rispetto al passato. L’altalena di posizioni politiche dal 2000 ad oggi, ha anche insegnato a non fare troppo affidamento su quanto avviene a Washington. Se il nuovo presidente saprà interpretare la realtà, avrà modo di influire positivamente anche sul piano globale. Altrimenti, nessuno si farà illusioni: c’è vita anche oltre gli Stati Uniti d’America.