L’America di Kafka, metafora del nostro mondo

«In un’Europa dove flussi migratori sono sempre più massicci e spesso drammatici, ci troviamo, ormai da anni, a riflettere sulle nostre origini, sulle nostre storie, sulle nostre contraddizioni, ma fortunatamente anche sulla nostra dirompente vitalità». Così Maurizio Scaparro presenta la messinscena del romanzo incompiuto dello scrittore boemo
teatro

«L’America non sta al di là dell’Oceano, è qui, noi siamo l’America», ribadisce il regista Maurizio Scaparro. Uno spostamento geografico che oggi riguarda soprattutto l’Europa. Il Nuovo Mondo descritto da Franz Kafka, quella «grande America» che egli immaginò così bene senza mai averla conosciuta, è la terra in cui il benessere sembra sempre a portata di mano, ma rimane inafferrabile, il luogo in cui la società si fonda sempre più sul denaro. Anticipava drammatici scenari contemporanei legati all'immigrazione, ai conflitti generazionali. L'odissea del giovane ebreo Karl Rossmann, cacciato di casa dalla famiglia per essere stato sedotto da una cameriera e costretto alla fuga negli Stati Uniti, in cerca di fortuna, dove dovrà confrontarsi con il mondo del profitto e del potere, diventa, nel romanzo Amerika, la metafora di un mondo dove tutto è sfida, miraggio, utopia. Che ci riporta all'attualità dei nostri giorni. Come se l’autore avesse previsto, con un secolo di anticipo, quello che sarebbe accaduto nel mondo: la diaspora di uomini costretti a lasciare la propria terra, come accade al protagonista. Sbarcato nel porto di New York con una sola valigia, incontra lo zio Jacob che dovrebbe trovargli lavoro e gli apre la strada a una serie d’incredibili peripezie e disavventure grottesche fra capi portieri d’albergo arroganti e portatori sconsiderati di piccoli e prepotenti poteri, dive di camerino, ambigui teatri d'Oklahoma.

Un romanzo onirico, il meno pessimista di tutta l'opera dello scrittore praghese, scritto con una modernità sorprendente e per di più incompiuto, che possiede la visionaria potenza e capacità di cogliere ombre e contraddizioni future. La storia dell’ingenuo Karl è sempre apparsa una parentesi felice nel contesto dell’opera narrativa di Kafka, cosparsa di autocondanne, di entità dispotiche e deleterie, rese ancor più fosche dalla loro insondabilità. Eppure, questo lontano racconto di formazione, con quel continente eletto a luogo di “espiazione” e di giovanili scorrerie, «pur essendo considerato un romanzo vivace – annotò Italo Alighiero Chiusano nella traduzione italiana del testo -, Amerika non la cede di molto, sul piano dell’angoscia a Il Castello e al Processo».

Da parte sua, lo spettacolo allestito da Maurizio Scaparro (dopo una prima messinscena nel 2000 e ora in una nuova edizione che ha debuttato lo scorso anno al Napoli Teatro Festival Italia) viaggia bene sui binari della vivacità e dello sbigottimento, lungo un “teatro delle meraviglie” che onora le sue reminiscenze da Cervantes e trae sosta dagli innumerevoli incontri del giovane Rossman in quella terra frenetica e non più leggendaria, sino al fatidico approdo al Gran Teatro di Oklahoma, con cui Kafka mise fine al manoscritto. Quel ragazzo ingiustamente perseguitato ricorda certe comiche di Chaplin e Keaton. E il giovane, bravissimo, Giovanni Anzaldo ha il volto, la fisicità e la destrezza funambolesca, la perenne espressione stralunata e vulnerabile del ragazzotto “buono ma duro di comprendonio”. Entra ed esce dal piccolo palco rivolgendosi al pubblico nel racconto dei suoi pensieri e delle azioni, nella scena funzionale e agile di porte spostate a vista dagli stessi interpreti a creare quel mondo d’interni ed esterni dentro il quale egli si agita. Accanto agli attori, tra cui lo zio Jacob di Ugo Maria Morosi e Carla Ferraro l’unico personaggio femminile, una piccola orchestra di tre elementi entra nel tessuto narrativo di Kafka con singolari suggestioni musicali, che vanno dal “boulevardier” al music-hall vecchio stile, dal “dixyland” alla musichetta yiddish. Particolare attenzione, infatti, è data, nello spettacolo, all'elemento musicale collegando i ricordi europei d’inizio '900 al nascente jazz nero di Scott Joplin, in particolare il Ragtime.

“Amerika” di Franza Kafka, traduzione e adattamento di Malcovati e Maurizio Scaparro, regia di Scaparro, con Ugo Maria Morosi, Giovanni Anzaldo, Carla Ferraro, Giovanni Serratore, Fulvio Barigelli, Matteo Mauriello; scene Emanuele Luzzati riprese da Francesco Bottai; costumi Lorenzo Cutili, Produzione Compagnia Gli Ipocriti, in collaborazione con Fondazione Teatro della Pergola. A Firenze, Teatro Goldoni, fino 25/1; a Milano, Teatro Menotti dal 5 al 15/2; a Mestre, Teatro Toniolo, 19 e 20/2; a Treviso, Teatro Comunale dal 6 all’8/3. E in tournée.

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