L’altro sono anche io
C’è da subito una dimensione intrigante che affiora quando poniamo attenzione alla grammatica dei pronomi personali espressa, per cominciare, nel rapporto tra l’io e il tu come altro dell’io che è egli stesso un io. A ben vedere, infatti, l’io che io sono non è soltanto “altro” rispetto al tu che è l’io altro da me: ma è anche altro rispetto… a se stesso!
Se è stato il pensiero dialogico a risvegliare l’attenzione sulla centralità del rapporto io-tu, possiamo risalire ai grandi maestri dell’interiorità – come sant’Agostino nell’epoca classica e nel ’900 Edith Stein – per mettere a fuoco la decisiva portata di questo fatto antropologico: io sono altro innanzi tutto rispetto a me stesso. Perché qui tocchiamo uno dei deficit più profondi, e più pericolosi, della cultura contemporanea: il tendenziale ideologico occultamento di questa originaria alterità che abita l’io: quella con sé. Che cosa significa, infatti, che io sono altro da me stesso?
Significa in primo luogo che dentro di me c’è una distanza tra ciò che sono adesso e ciò che sono chiamato ad essere, una distanza che non è un fatto negativo, ma esprime la temporalità del cammino percorrendo il quale io sono chiamato a pervenire sempre più e meglio a quell’identità ch’è quella del mio io.
Significa, dunque, che l’identità del mio io è un’identità aperta, in fieri, un’identità “narrativa”, che racconta una storia: è un “essere”, certo, ma è insieme un “dover essere”: quasi fosse uno spartito musicale che prende vita e respiro solo se e quando e come viene eseguito.
Sì, è questo il mistero dell’io: l’io è sé, diventa sé, al-di-là di sé. Dal punto di vista psichico, si può agevolmente convenire che l’io che non vive in sé la consapevolezza di questa distanza temporale ed etica e di questo cammino d’invenzione è un io che patologicamente s’arresta a uno stadio di fissazione della sua identità, che di fatto ne blocca la crescita e rischia di farlo implodere. Ma c’è un ulteriore significato custodito in questa esperienza. Ne troviamo traccia, anzi ben più d’una traccia, nei dialoghi di Platone e negli scritti degli Stoici, ad esempio di Seneca. Il quale scrive che l’uomo non trova la propria gioia nel suo io, ma nella “migliore parte di sé” che in definitiva è altra dall’io.
Sant’Agostino, alla luce dell’esperienza maturata dall’incontro con Gesù, approfondisce questa intuizione: per trovare il proprio io occorre non solo “tornare in sé” e immergersi nella propria interiorità, ma occorre “trascendere se stessi”, avere il coraggio e la forza di andare nel fondo più fondo della propria interiorità. E lì che cosa si trova, o meglio Chi si trova? il Mistero, Dio, che custodisce la mia identità. Così prega il salmista: «Sei tu che mi hai formato e mi hai tessuto nel grembo di mia madre. Non ti erano nascoste le mie ossa quando venivo formato nel segreto, ricamato nelle profondità della terra. Erano tutti scritti nel tuo libro i giorni che furono fissati quando ancora non ne esisteva uno».
Ho parlato di Mistero, per sottolineare che non si tratta solo di un’esperienza connotata religiosamente, ma di un’esperienza umana. Quella che tutti facciamo: posso forse dire di sapere o di possedere chi sono io? O debbo riconoscere, con realismo, umiltà e impegno, che io in rapporto al mio io sono un po’ come un artista che ha intrapreso la realizzazione d’una magnifica opera d’arte? Essa non c’è ancora, sotto gli occhi dell’artista: eppure lui la conosce, la intuisce, tanto che essa guida e orienta passo passo la realizzazione che egli ne fa. Non c’è ancora, ma in un certo senso c’è già.
Così il mio io fiorito con la corolla aperta al sole e tutta variopinta dei suoi petali non c’è ancora, ma al tempo stesso c’è già come chiamata interiore che ne guida l’esecuzione attraverso i mille incontri e le mille circostanze, belle e meno belle, della vita. L’altro che sono io è custodito per me, è restituito a me, in certo modo è partorito da me solo in sinergia con quell’Altro, Dio, che abita nel fondo più fondo di me.