L’altro Mondiale

In tv c’è più calcio che in una cura per l’osteoporosi dice una canzone. Il Mondiale di Germania sta ingozzando di pallone ad ogni ora milioni di tifosi: difficile parlare d’altro. Eppure non manca chi offra l’occasione di parlarne in termini di solidarietà, giustizia e riscatto. Il pallone vive infatti in questo tempo altri Mondiali, alternativi, poveri, sconosciuti ai più, lontani dai riflettori, ignorati dai media e dagli sponsor. Eppure non meno affascinanti. Si è da poco conclusa ad Amburgo la Fifi Wild Cup, la coppa selvaggia di Fifi, una simpatica storpiatura della Fifa, organismo supremo che controlla il mondo del pallone. Vi hanno partecipato le nazioni che, a torto secondo loro, l’organismo non riconosce, come la Groenlandia, esclusa perché non ha un campo regolamentare (!), il Tibet, Zanzibar, Gibilterra, la Repubblica Turca di Cipro del Nord, escluse perché non sono stati indipendenti. Ma Galles, Scozia ed Irlanda del Nord lo sono? Altrettanto alternativi, ma più aperti ad uno sport solidale, sono i primi mondiali di calcio di strada, promossi da Street Football World, che si giocano in queste settimane in Germania. All’indomani del tragico assassinio, nelle strade di Medellin, di Andres Escobar, difensore della Colombia, colpevole solo di aver segnato l’autogol che ha causato l’eliminazione del suo Paese dal Mondiale degli Usa, si è voluto cercare di ridare al calcio un volto umano e felice. Riportandolo lì dove esso comincia ad alimentare in modo naturale, fra palloni di stracci e porte improvvisate, i sogni di milioni di ragazzi: la strada. In pochi anni, dalla Colombia, il football callejero, si è allargato a macchia d’olio nei cinque continenti, creando un’autentica rete alternativa ispirata al fortunato motto think global, play local (pensiero universale, gioco locale) che coinvolge oggi oltre 150 mila ragazzi. Il football di strada, due tempi di 20 minuti giocati senza arbitro, vuole essere, prima che un gioco, una esperienza di vita grazie ad un nuovo sistema di punteggio che assegna 20 punti per la partecipazione, 10 per ogni gol fatto, 10 per il rispetto delle regole pattuite, 10 per il comportamento solidale verso gli altri, 10 per lo sviluppo di un gioco collettivo, 3 per ogni elemento coreografico della squadra. Ad assegnarli, a fine partita, sono, insieme, i giocatori delle due squadre! Ma l’alternativa sicuramente più originale è la Homeless World Cup (i Mondiali dei senza casa, mannaggia all’inglese!), che si gioca ogni anno e che vede in campo atleti decisamente singolari. Per poter giocare in queste insolite rappresentative bisogna essere o senza fissa dimora, o ri- fugiati politici, o alcolisti o tossicodipendenti in trattamento da almeno due anni, o strilloni di giornali di strada. L’anno scorso ad Edimburgo erano in 204, suddivisi in 26 squadre di 8 giocatori. Il più giovane un ragazzo svizzero di soli 16 anni, il più anziano un giapponese di 64. In un campo di 22 metri per 16, ogni squadra schiera un portiere e tre giocatori, con 4 in panchina che entrano a rotazione nei due tempi di 7 minuti. Di più questi particolari atleti non possono permettersi di giocare. L’agonismo è più vivo che mai, ma le maggiori soddisfazioni non le ricavano alla fine dal solo successo sul campo. I risultati sono prima di tutto quelli di una riacquistata integrazione sociale: dopo l’ultimo mondiale, gran parte di loro hanno ritrovato una nuova motivazione per vivere, hanno costruito amicizie, hanno trovato un lavoro, hanno trovato determinazione per uscire dal tunnel della dipendenza. Solo meno di uno su dieci si è perso. Il torneo mi ha aperto gli occhi (David, 20 anni, canadese), È stata la migliore esperienza della mia vita (Yevgen, 20 anni, ucraino), Grazie di avermi mostrato che lo sport è una via di integrazione (Eduardo, 24 anni, brasiliano), Ha cambiato la mia vita (Auric, 23 anni, inglese), Sono orgoglioso di aver rappresentato il mio Paese (Sean, 21 anni, gallese), sono solo alcune delle testimonianze del valore di un torneo che ha ridato a tanti dignità e speranza. A rappresentare l’Italia, ed a vincere le ultime due edizioni del Mondiale, è stata la squadra italiana Multietnica 2001: hanno dedicato la vittoria a tutti coloro che, in Italia e nel mondo, ancora lottano per la casa, il lavoro ed il permesso di soggiorno. La nostra nazionale, fatta di nuovi italiani, rom, argentini, rumeni, brasiliani, peruviani, marocchini ed italiani è tenuta insieme dalla passione e dalla fantasia del carismatico presidente e mister Bogdan Kwappik, 33 anni, professione metalmeccanico precario, polacco, immigrato in Italia 14 anni fa. L’avventura di Multietnica 2001 nasce per fermare lo sgombero del campo nomadi di via Barzaghi a Milano, la più grande favela d’Italia, condizioni disumane, ratti enormi a loro agio fra rifiuti di ogni genere. La squadra di calcio è nata così, come testimonianza della volontà di organizzarsi per migliorare le loro condizioni di vita. In fondo il calcio, collaborare per fare goal, era una metafora perfetta di quello che stavano cercando di fare. Maglie e scarpette le hanno messe Milly Moratti e l’Inter. Il campo nomadi se lo giocarono in una partita contro i consiglieri comunali di Milano: vinsero 1 a 0. Ma le ruspe arrivarono lo stesso. Intanto però era chiaro che il calcio rappresentava un mezzo idoneo per veicolare solidarietà e giustizia, voglia di riscatto e dignità delle persona. Le trasferte non sono state sempre semplici: per Edimburgo metà dei giocatori non ha ottenuto il visto di espatrio, ma la vittoria è arrivata ugualmente. Bogdan nel frattempo ha trovato casa, ha messo su famiglia ed ha una bimba che, non a caso, si chiama Vittoria. L’associazione Multietnica 2001 accompagna all’attivismo politico in favore dei migranti ed alla organizzazione di eventi musicali multietnici, la partecipazione a diversi tornei nazionali ed internazionali. Ma Bogdan non si lamenta solo per i soldi per le trasferte che scarseggiano sempre: Perché quando torniamo non c’è mai nessun giornalista ad accoglierci all’aeroporto? Eppure siamo la nazionale italiana, i campioni del mondo!.

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