L’album di Springsteen che piace all’Osservatore Romano

Si intitola “High Hopes” il nuovo album del rocker statunitense: un pugno di canzoni (nuove o misconosciute) per ridar fiato alle speranze del mondo e per suggerire ai detrattori che il Boss è sempre lui
Copertina di "High Hopes"

Nessuno come lui ha saputo leggere il proprio tempo. Nel suo ambiente nessuno come lui ha saputo trovare bagliori di luce in fondo alle oscurità degli animi umani. Da decenni Springsteen sa dar voce alle speranze e motivazioni alla fiducia: senza retorica o semplicismi, ma attingendo alla realtà e ai suoi garbugli; non per dar sfogo alla depressione, ma per esaltarne i fremiti, le lotte, le marginalità.

High Hopes (guarda il video di High Hopes su Youtube) è un album ruspante e appassionato, un disco dall’anima rock, ma trapuntato di atmosfere acustiche e folkeggianti. Costruito in stretta collaborazione con Tom Morello (già chitarrista della band dei Rage Against The Machine), il diciottesimo capitolo della saga springsteeniana presenta materiale assai variegato: qualche cover di brani altrui poco noti e reinventati alla sua maniera, la rilettura rockettara della già nota The ghost of Tom Joad, e una manciata di inediti, tra cui un brano, Down in the hole, con la presenza di tre figli ai cori: «Sono canzoni – ha spiegato nelle note di copertina – che ho sempre pensato meritassero una casa e un ascolto. Spero vi piacciano». 

Secondo i detrattori, un disco “di scarti”, figlio di un contratto capestro firmato con la Sony che gli impone di pubblicare molti più dischi che in passato. Ma se queste sono frattaglie allora ben vengano, perché l’energia, il sangue, il sudore e la passione che schizzano dai solchi sembrano possedere il medesimo codice genetico se non proprio dei suoi capolavori, almeno dei suoi lavori più convincenti. Dodici belle canzoni che suggellano i primi quarant’anni della carriera del più grande cantautore e cantore dell’America contemporanea: «Qualcuno mi dica qual è il prezzo – canta nella title-track –. Voglio comprare un po’ di tempo e forse vivere la mia vita. Voglio avere una moglie, voglio avere dei bambini. Voglio guardare nei loro occhi e scoprire che avranno una possibilità. Cantando: aiutami, dammi forza, dammi un’anima, una notte di sonno senza paura, dammi amore, dammi pace. Non sai che di questi tempi si deve pagare ogni cosa? Ho grandi speranze…».

Un album che sottolinea una volta di più la “religiosità laica” di un artista che da tempo ama i riferimenti biblici. Lo aveva sottolineato tempo fa il gesuita Antonio Spadaro su Civiltà Cattolica, lo ha ribadito nei giorni scorsi Gaetano Vallini su L’Osservatore Romano. Per parte nostra aggiungiamo che gli afflati spirituali che permeano anche l’ultima fatica del Boss del New Jersey non trovano la loro radice primaria in un’ansia di appartenenza quanto nella condivisione di un messaggio valoriale universale; Springsteen non ha mai scritto canzoni “di parte”, ma semmai spinto dal desiderio di unificare, compattare, incoraggiare, quanto di buono e giusto s’agita nei cuori e nei subconsci dell’umanità che lo – e ci – circonda.

In questo senso il variegato universo poetico, narrativo e stilistico di High Hopes trova la sua principale ragion d’essere, e la sua forza, proprio in questa sua voglia di ritrovare un senso del positivo anche nelle inquietudini del presente. E ciò è non solo profondamente cristiano, ma proprio di chiunque s’ostini a credere che la (ri)costruzione del mondo necessiti dei mattoni – e dei cuori – di chiunque lo abiti. 

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