L’alba del giorno dopo
Il re di Spagna chiede aiuto all’America Latina: un'occasione per creare equilibri più giusti tra popoli e Paesi. Dal nostro corrispondente dall'Argentina
Le parole pronunciate dal re di Spagna, Juan Carlos di Borbone, alla conclusione del Vertice Ibero-americano hanno il tono di un appello accorato: «Il mondo è oggi molto diverso da quello che esisteva quando abbiamo iniziato questi vertici. L’Iberoamerica è in crescita. Da questo lato dell’Atlantico abbiamo visto sorgere situazioni difficili per la crisi. Il nostro sguardo si rivolge a voi. Abbiamo bisogno di più Iberoamerica».
Sembra quasi una scena tratta dall’"Alba del giorno dopo", il film di Roland Emmerich che immagina una catastrofe climatica di proporzioni enormi che trasforma gran parte degli Usa in un blocco di ghiaccio. Le parti si invertono e sono gli abitanti della grande potenza a chiedere asilo al Messico attraversandone in massa le frontiere.
In questo caso non è stato il clima a far pronunciare queste parole al re di Spagna, ma la catastrofe economica di cui la Spagna è emblema, con il 25 per cento di disoccupazione e i numerosi suicidi di persone colpite dall’ingiunzione di sfratto. I destinatari delle parole del re non sono persone qualsiasi, ma la gran parte dei capi di Stato e di governo dell’America Latina. Lo ascolta Evo Morales, il presidente della Bolivia, dai tratti che denotano le sue origini indigene, impegnato a far rinascere il suo Paese da sempre tra i più poveri della regione, ma bistrattato dalla stampa europea. C’è anche l’ecuadoriano Raffael Correa, in lotta contro un debito estero illegittimo da quando è alla presidenza e, con lui, il vicepresidente Boudou dell’Argentina, resa un paria dei mercati per aver osato ristrutturare il suo debito e per aver mandato a casa gli asfissianti tecnici dell'FMI dopo aver pagato sull’unghia il debito con questo organismo internazionale.
C’è la brasiliana Dilma Roussef, succeduta a Lula da Silva, anche lui trattato a suo tempo come populista da un Occidente che oggi non sa come affrontare i nuovi poveri che sta provocando la crisi. Sono i rappresentanti di popoli che per decenni hanno sofferto pene inenarrabili, con centinaia di milioni di persone condannate a patire miserie e ingiustizie spesso propiziate, attraverso regole di commercio ingiuste, proprio da quel mondo che oggi chiede aiuto.
Ma non è una questione solo di più o meno commercio. Perderemo una grande opportunità se non sapremo guardare oltre, perché bisogna apprendere dalla storia con i suoi corsi e ricorsi: come 500 anni fa, il nuovo mondo è fonte di speranza. È questa l’occasione per riscrivere gli schemi commerciali usati finora con criteri di giustizia e non in base alla forza che concede la necessità altrui; va rivisto il funzionamento dei mercati finanziari, va riscoperta la cooperazione e il trasferimento di tecnologie. Bisogna guardare assieme allo sviluppo e al progresso. Forse oggi più di ieri l’Europa può cogliere il senso delle profetiche parole di Paolo VI nella "Populorum progressio", quando faceva appello a una comunione dei beni tra Paesi ricchi e Paesi poveri. Una frontiera che oggi forse è indefinita. Stiamo scoprendo sempre di più quanto siamo interdipendenti, quanto siamo deboli, ciascuno individualmente. Siamo dunque tutti poveri. La vera forza nasce dallo scoprirci fratelli.