Laicità e carismi
Laicità è una parola equivoca. In certe occasioni indica una decisa posizione di rifiuto contro l’universo religioso, che a volte diventa un vero accanimento critico contro la religione, i suoi protagonisti e i suoi frutti sociali. In altre situazioni, invece, intende segnalare soltanto una giusta ed equilibrata difesa dell’autonomia delle realtà temporali nei riguardi dei principi e precetti che derivano della religione. Non è difficile trovare nella cultura attuale rappresentanti di spicco delle due posizioni. Esiste però anche un concetto di laicità pienamente ecclesiale e cristiano.
Con questo numero “Unità e Carismi” tenta di fare un po’ di luce su questo fiume che percorre la cultura d’occidente, spesso in forma nascosta, ma che ogni tanto affiora nelle notizie in modo polemico (il crocefisso nelle aule, i riferimenti alla fede cristiana nella Costituzione Europea ecc.). M. Mantovani ci presenta il senso positivo della laicità. A. Lo Presti ci offre uno sguardo su Igino Giordani, esempio di cristiano laico, che ha saputo fare una sintesi esemplare tra le due dimensioni senza perdere l’una o l’altra, e la cui causa di beatificazione è già stata avviata. M. Motta ci fa entrare, invece, nel rapporto tra i carismi e i laici, in particolare nella vita consacrata.
Tra i testimoni, A. Lazarotto ci presenta Tiziano Terzani, una figura esemplare di laico non credente ma assettato e sempre alla ricerca della verità. M. Crosti, invece, ci fa conoscere la figura di F. di Lammennais che nel secolo XIX fu uno dei primi a capire le possibilità nascoste nell’apertura ai valori della laicità, e soffrendone tanto per questo.
Nelle esperienze troviamo delle finestre sul dialogo tra credenti e non credenti nel mondo della salute, in Albania ecc. Infine, F. Kronreif ci racconta il dialogo che il Movimento dei Focolari porta avanti da anni con le persone di convinzioni non religiose, mentre M. Mantovani presenta le iniziative di dialogo, intraprese nel 1987 dal card. Martini a Milano (Cattedra dei non credenti) e nel 201l dal Pontificio Consiglio per la Cultura (Cortile dei Gentili).
In apparenza non sembra possibile, e nemmeno molto utile, cercare di trovare un legame tra laicità e carismi religiosi. Se già gli stessi credenti capiscono poco il significato dei voti e dello stile di vita delle persone consacrate, sembra piuttosto difficile pensare che possano comprenderlo le persone che hanno uno sguardo laico sulla realtà. Sicuramente, il massimo che possiamo aspettarci dalla laicità è una tolleranza rispettosa delle nostre “peculiarità”.
Tuttavia c’è un fenomeno interessante che fa riflettere. Spesso si vede in questi rappresentati della laicità una manifesta simpatia verso alcuni santi e sante. Soprattutto coloro nei quali la missione affidata da Dio ha particolari tratti di umanità, p.e., Francesco di Assisi, Pietro Claver, M. Teresa di Calcutta, o a tanti missionari e missionarie. In tutti questi casi si vede con chiarezza che, al di là delle dimensioni più interne della loro vicenda personale, forse inaccessibili per loro, tanti laici e laiche si sentono, però, attirati dalla ricca umanità presente nella vita di questi uomini e donne di Dio. Per non parlare dello stesso Gesù di Nazaret.
Non solo. Quando si lavora gomito con gomito con queste persone “lontane” attorno ai problemi comuni (giustizia, povertà, pace, ecologia, profughi ecc.), in un vero clima di accoglienza reciproca, impegno e dialogo, si percepisce che, spesso, i pregiudizi cadono, i nodi duri man mano si scioglino. Forse perché, ne ho fatto esperienza, ci ritroviamo semplicemente fratelli, incominciamo a volerci bene, senza giudicarci, rispettando le nostre convinzioni.
Tutto questo mi fa pensare che la lontananza dalla religione e dalla Chiesa, almeno in certi casi, forse dipende dall’esperienza che queste persone hanno avuto di un volto della Chiesa troppo legato alla “religione”, troppo clericale, eccessivamente istituzionale, ideologico, formale, o addirittura mancante di umanità. Troppo “religioso” ma poco umano. Mentre il Verbo si è fatto uomo.
Provenienti da una cultura cattolica maggioritaria, noi consacrati ci siamo abituati per secoli ad essere riconosciuti e valorizzati per il semplice fatto di essere consacrati. La semplice consacrazione a Dio ci concedeva uno “status” sociale privilegiato, il più delle volte indipendentemente dalla qualità evangelica della nostra vita. Alla fine il “ruolo” sosteneva la persona, e non il contrario. Credo che uno dei frutti più decisivi della secolarizzazione sia stata la scomparsa di questo ruolo sociale e l’impossibilità di continuare a vivere di rendita.
La sfida attuale è quella di guadagnarci la credibilità davanti a tanti figli e figlie di Dio che, purtroppo, non conoscono né sentono più questa loro condizione realtà fondamentale. Ci sarà di aiuto la qualità evangelica della nostra testimonianza, della nostra azione apostolica, della nostra vita di comunità, certo, ma anche la capacità di incarnare sul piano umano concreto questa vita che ci viene donata dall’alto. Altrimenti corriamo il rischio di lavorare per difendere noi stessi, piuttosto che per incontrare gli altri. Se il nostro punto di riferimento, il Figlio di Dio, ha voluto farsi uomo e condividere la nostra vita, con tutte le conseguenze, oggi noi dobbiamo percorrere la stessa strada.