Laici!

La recente lettera di Francesco al card. Marc Ouellet, presidente della Pontificia Commissione per l’America Latina, porta nuova materia nella riforma della Chiesa pragmaticamente realizzata da Bergoglio. Un documento chiaro, che parla da sé
Laicato © Michele Zanzucchi 2007

«Il pastore è pastore di un popolo, e il popolo lo si serve dal di dentro. Molte volte si va avanti aprendo la strada, altre si torna sui propri passi perché nessuno rimanga indietro, e non poche volte si sta nel mezzo per sentire bene il palpitare della gente», afferma il papa, sottolineando come il clero abbia un ruolo “interno” più che “esterno”. Ruolo, quindi, che spetterebbe piuttosto ai laici.

 

E insiste con parole direi perentorie: «Nessuno è stato battezzato prete né vescovo. Ci hanno battezzati laici ed è il segno indelebile che nessuno potrà mai cancellare. Ci fa bene ricordare che la Chiesa non è una élite dei sacerdoti, dei consacrati, dei vescovi, ma che tutti formano il Santo Popolo fedele di Dio. Dimenticarci di ciò comporta vari rischi e deformazioni nella nostra stessa esperienza, sia personale sia comunitaria, del ministero che la Chiesa ci ha affidato».

 

Francesco poi attacca «una delle deformazioni più grandi», il clericalismo. Cosa provoca un tale male? «Annulla la personalità dei cristiani (…), porta a una omologazione del laicato (…), limita (…) le audacie necessarie per poter portare la Buona Novella del Vangelo a tutti gli ambiti dell’attività sociale e soprattutto politica (…),va spegnendo poco a poco il fuoco profetico di cui l’intera Chiesa è chiamata a rendere testimonianza nel cuore dei suoi popoli (…); dimentica che la visibilità e la sacramentalità della Chiesa appartengono a tutto il popolo di Dio e non solo a pochi eletti e illuminati».

 

Basterebbero queste poche affermazioni, discretamente rivoluzionarie, per capire che la lettera di Bergoglio apre un nuovo “ospedale da campo” nella Chiesa. Parla così della “pastorale popolare” sudamericana per indicare un esempio di “non-clericalismo”. «Ho preso questo esempio (…) come chiave ermeneutica che ci può aiutare a capire meglio l’azione che si genera quando il santo popolo fedele di Dio prega e agisce. Un’azione che non resta legata alla sfera intima della persona ma che, al contrario, si trasforma in cultura». Cioè riproducibile, cioè capace di parlare alla gente, cioè di evangelizzare anche la politica.

 

Ed ecco l’elogio del laico, visto come lavoratore nelle periferie esistenziali delle nostre società: «Oggigiorno molte nostre città sono diventate veri luoghi di sopravvivenza. Luoghi in cui sembra essersi insediata la cultura dello scarto, che lascia poco spazio alla speranza. Lì troviamo i nostri fratelli, immersi in queste lotte, con le loro famiglie, che cercano non solo di sopravvivere, ma che, tra contraddizioni e ingiustizie, cercano il Signore e desiderano rendergli testimonianza».

 

E allora, in che modo i pastori possono sostenere i laici? «Ci fa bene domandarci come stiamo stimolando e promuovendo la carità e la fraternità, il desiderio del bene, della verità e della giustizia. Come facciamo a far sì che la corruzione non si annidi nei nostri cuori». Con una precauzione primaria: «Molte volte siamo caduti nella tentazione di pensare che il laico impegnato sia colui che lavora nelle opere della Chiesa e/o nelle cose della parrocchia o della diocesi, e abbiamo riflettuto poco su come accompagnare un battezzato nella sua vita pubblica e quotidiana». Ed ecco una spietata autocritica: «Senza rendercene conto, abbiamo generato una élite laicale credendo che sono laici impegnati solo quelli che lavorano in cose “dei preti”, e abbiamo dimenticato, trascurandolo, il credente che molte volte brucia la sua speranza nella lotta quotidiana per vivere la fede. Sono queste le situazioni che il clericalismo non può vedere, perché è più preoccupato a dominare spazi che a generare processi». Ecco il fulcro del discorso di Bergoglio, già annunciato nella Evangelii Gaudium: bisogna aprire processi e non occupare spazi. Bisogna, cioè, lasciare agire lo spirito rendendo possibile la sua azione.

 

Conclusione: «Non si possono dare direttive generali per organizzare il popolo di Dio all’interno della sua vita pubblica. L’inculturazione è un processo che noi pastori siamo chiamati a stimolare, incoraggiando la gente a vivere la propria fede dove sta e con chi sta (…). L’inculturazione è un lavoro artigianale e non una fabbrica per la produzione in serie di processi che si dedicherebbero a “fabbricare mondi o spazi cristiani”».

 

Per leggere il testo completo della lettera clicca qui

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