L’AI è amica o nemica della natura?
Il susseguirsi di catastrofi “naturali” – ma almeno in parte provocate dallo sconsiderato sfruttamento delle risorse naturali da parte degli esseri umani – e lo sviluppo tecnologico digitale degli ultimi decenni, con una capillarità sconosciuta in precedenza, hanno portato l’umanità intera, dove più dove meno, a occuparsi e preoccuparsi del futuro del nostro pianeta, grazie all’uso dei mass media. In Svezia più che in Russia, in Giappone più che in Afghanistan. L’informazione digitale e i social network, infatti, hanno dato le ali a un movimento che è essenzialmente giovanile, perché le nuove generazioni si interessano molto più da vicino a un futuro incerto che invece tocca solo relativamente le generazioni precedenti.
Inoltre, non si può pensare alla crescita rapida della questione ecologica sul futuro del pianeta senza considerare la questione tecnologica e le sue conseguenze sulla nostra vita. Lo sviluppo tecnologico, infatti, accanto a tante invenzioni utili che ha portato con sé, è tra le principali cause del degrado della qualità della vita sulla nostra Terra e della difficoltà a rendersi conto che il cosiddetto progresso tecnologico ha dei costi. L’interesse mediatico per l’ecologia ha dunque tre caratteristiche: è capillare, è rivolto ai giovani ed è connesso con lo sviluppo tecnologico.
Per cercare di capire queste complesse relazioni tra umano, natura e tecnologia, scegliamo, tra i tanti possibili, un aspetto del legame tra informazione ed ecologia, un ingresso nel problema che ci aiuterà a trovare elementi di riflessione e formazione più generali. Parlo della questione dell’eccesso di dati in circolazione, quello che usando un anglicismo si potrebbe chiamare Data Flood: enormi masse di dati vengono trattate ogni istante grazie a miliardi e miliardi di operazioni che hanno però un costo in risorse, sia umane che naturali, sia economiche che tecnologiche, oltre che numerosi e gravi effetti sull’essere umano, sia fisici che psicologici, con conseguenze anche sul pensiero e sulla visione del mondo.
Questi dati pesano, sia perché per immagazzinarli si usano server avidi di energia e di acqua (per il raffreddamento), sia per la nostra mente, che si trova dinanzi ad essi impreparata se non smarrita, con l’impressione che un’ondata stia per infrangersi sulla propria persona. Non per niente, l’attenzione delle grandi aziende del digitale è concentrata su programmi che permettano di districarsi nel Data Flood. E non per niente l’attenzione dei legislatori del mondo intero, soprattutto al di qua e al di là dell’Atlantico, è occupata dalla necessaria protezione della riservatezza, della privacy, di noi umani che navighiamo sulla Rete come novelli Ulisse, che non sanno dove mai si andrà a finire. Certo è che i miliardi di oggetti informatici che oggi nel nostro mondo hanno un ID (identità numerica) attribuito loro dall’ICANN (organismo che gestisce le radici di Internet), stimati in una decina, ma nel giro di 5 anni potrebbero essere più del doppio) producono ogni giorno una montagna fluida di dati che rischia di avvolgerci e sommergerci. L’AI, l’intelligenza artificiale, pretende di “dominare” questa massa di dati, ma non si capisce ancora se ciò corrisponda al vero.
È ovvio, bisogna avere sempre ben presente che la visione deve essere complessiva, olistica direi: tutti noi viviamo in un’infosfera in cui i singoli esseri umani come pure i singoli mass media, interagiscono in modo estremamente complesso, in modi sorprendenti e ormai in modo quasi indipendente dalla volontà di chi li ha inventati. Luciano Floridi ha svolto un serio lavoro sull’infosfera (Pensare l’infosfera, Raffaello Cortina editore, Milano 2020): in esso il filosofo della scienza evidenzia come l’infosfera abbia bisogno di essere guidata con una visione complessiva che gli algoritmi non possono dare. La società stessa va “re-ingegnerizzata” perché i mezzi digitali hanno potenzialità di relazione tra umani e tra umani e macchina che non ha precedenti nella storia dell’umanità. Il modo di sviluppo della cultura digitale, nota Floridi, è il semplice copia/incolla, il che crea qualche problema per gli errori possibili che tale metodo porta con sé.
Lasciamo tuttavia da parte ogni sospetto di complottismi: l’infosfera non ha una guida unica, non esistono lobby che regolano l’insieme dell’informazione mondiale, non c’è una visione complessiva che mira a soggiogare l’intera umanità al volere di un dittatore onnipotente, i vaccini non sono strumenti chimici di una mente perversa e i computer non servono a renderci soldatini di piombo. Ma certamente soggetti di diversa natura possono nell’infosfera occupare spazi e creare nicchie di potere.
Certamente, come sostiene Vincenzo Fano, professore di Filosofia della mente a Pesaro, l’invenzione del linguaggio, nella notte dei tempi, ha posto alla società umana una serie di problemi di interpretazione, di gestione della violenza, di giustizia e di etica assai simili a quelli che la rivoluzione digitale, gli algoritmi e l’intelligenza artificiale stanno oggi provocando. Questo fatto sarebbe fonte di speranza, sempre secondo Fano, perché l’umanità ha in sé le capacità necessarie per trovare le giuste soluzioni ai nuovi problemi, anche se nel presente si può essere vittime di un pessimismo cupo.
L’informazione – e l’infosfera tutta intera – è interessata dunque al problema ecologico e a una ecologia integrale per l’impatto della componente digitale sulla natura e sugli umani. Lo straordinario avanzamento tecnologico attuale ci riserverà delle sorprese, speriamo positive e non solo negative: la tecnologia, infatti, e l’AI in particolare, ci aiuterà a gestire le risorse in modo sostenibile, valutando di volta in volta l’impatto di un processo o di uno strumento sulla biosfera, oltre che sull’infosfera.
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