Laggiù tra Cina e Russia
Viaggio in un Paese stritolato dai vicini colossi. Una natura straordinaria, una cultura in difficoltà, un Islam incerto.
All’aeroporto l’impatto è di quelli che colpiscono. Non tanto per gli aerei civili stazionati nell’aerostazione – vecchi modelli di compagnie inaffidabili – quanto per cinque Hercules, tutti grigi, tutti dell’Us Air Forse; e, sullo sfondo, ecco un paio di bestioni del cielo, degli Antonov russi, colorati di bianco e d’azzurro. Anche questa è una guerra di immagini nell’infinita competizione tra russi e statunitensi. Dinanzi a Hercules e Antonov, tre o quattro aerei da trasporto, d’evidente patente cinese, scaricano merce. Ecco, allora, in un’immagine, la sintesi della situazione chirghisa: la vicenda economica interna è quella che è, ancorata a modelli del passato e a feudi indistruttibili, mentre i governi che si succedono a ritmi elevati cercano di tenersi buoni tutti, soprattutto le due grandi potenze mondiali tradizionali. I cinesi, invece, non pretendono posizioni d’onore o di forza, ma solo di poter svolgere con libertà e senza troppi controlli la loro opera commerciale.
Il cucchiaio di legno
Bishkek – il postsovietismo ha scelto questo nome per la capitale, indica una sorta di “cucchiaio di legno” usato per preparare il kumys, la pietanza nazionale a base di latte di cavalla fermentato – mi si annuncia forse non a caso della sorte. Una città aperta, con forti influenze russe, sia nell’architettura che nella cultura, e una potente attrattiva per la way of life americana, quella dei McDonald’s e dei Kfc. L’Europa? C’è poco, pochissimo, in qualche spettacolo e nei telefonini finlandesi e tedeschi (che però, a colpo sicuro, sono cloni provenienti dalla Cina).
La “Chui” è il vialone dei palazzi di potere e commercio, di cultura e sicurezza. Su di essa si affaccia il Museo storico nazionale, un parallelepipedo di marmo e vetro che non promette nulla di buono. Occupa un lato dell’immensa piazza Ala Too, dove sventola la bella bandiera nazionale chirghisa, che si fregia della stilizzazione della sommità di una yurta.
Una visita che mi racconta la vicenda storica di questi popoli – al plurale! –, e che mi permette anche di imparare qualcosa sul sistema tribale locale, che ha molta più influenza di quanto non si creda – l’ex-presidente Akiev era del Nord, il nuovo, Bakiev, è del Sud –, con le tribù del centro a papparsi tanti interessi economici, come il “signorotto” di Naryn che possiede la straordinaria “città di container” di Dordoi, un immenso porto franco. E poi m’informo non poco sulle yurte e sulla vivissima tradizione sciamanica locale. Ancora, mi interesso ai Manas, poema epico nazionale composto a partire dal XV secolo, ma messo per iscritto solo di recente. M’introduco pure nel capitolo inquietante del rapimento della futura sposa, pratica vietata dalla legge ma praticata un po’ in tutto il Paese.
Il resto del museo è pura propaganda sovietica, Lenin e Trotskij e Breznev; le autorità non hanno potuto o voluto cambiare nulla, nemmeno le matrone che custodiscono gelosamente e furiosamente il loro tesoro.
Il console e la Russia
Giorgio Fiacconi è console onorario d’Italia a Bishkek. A metà strada tra la diplomazia e il business, è un gran promotore dell’italianità più creativa. È un uomo importante, come testimonia il palazzotto che occupa nel centro commerciale della capitale chirghisa, a due passi dai grandi magazzini Zum, di cui è stato anche proprietario e “salvatore”. Vorrebbe che l’Italia fosse più presente, ma sa di predicare nel vuoto. Ogni mese deve ottenere i visti per sei o sette donne chirghise che vogliono sposare degli intraprendenti italiani.
«Il Kirghizistan è un Paese tollerante per la forte eredità sovietica». Inizia così, un po’ furbescamente, il nostro colloquio. Ma subito argomenta: «È sbagliato dimenticare i legami che questo Paese ha avuto negli ultimi settant’anni con Mosca. È sbagliato smettere di insegnare nelle scuole il russo a favore del chirghiso: come praticare l’ingegneria in russo, se la lingua locale non ha il vocabolario adeguato? E come dimenticare che un milione di chirghisi, sui cinque totali, vive in Russia o in Kazakistan, apportando alla madre patria circa il cinquanta per cento del Pil?».
Perora bene la causa della Russia, Fiacconi. Il suo è un sano realismo politico ed economico, oltre che strategico-militare: «Gli statunitensi avevano stabilito una base qui a Bishkek nel 2001, per la guerra d’Afghanistan. Ma qualche mese fa i chirghisi hanno chiesto loro di andarsene. Un problema per il Pentagono, perché la base uzbeca era stata chiusa. Il realismo chirghiso alla fine ha prevalso e la base statunitense è rimasta tale e quale, declassata però da “base militare” a “base di transito”. Mentre i russi sembrano sul punto di aprire una nuova sede militare nei pressi di Osh, al Sud».
Il presidente Bakiev è stato rieletto da pochi giorni, con percentuali bulgare, o se volete chirghise. L’Ocse e i suoi osservatori hanno denunciato brogli e pressioni indebite: «Ma che cosa c’è di “vero” in questa parte del mondo? I brogli sono sempre esistiti e la democrazia all’occidentale qui sarebbe non solo impossibile da realizzare, ma addirittura dannosa».
Da 15 anni il dott. Fiacconi fa affari in questo Paese. Lamenta i danni della rivoluzione del 1991: «C’era un’ideologia nel Paese, è vero, ma la rivoluzione l’ha tolta senza lasciare nulla al suo posto. Ora il Kirghizistan è un’entità sincretista che guarda un po’ all’Islam un po’ all’animismo, un po’ allo sciamanesimo: nel privato i riti tradizionali rimangono validissimi. E a tutto ciò si assomma un problema etnico – o meglio tribale – non di poco conto. È radicato, e non c’è verso di estirparlo. D’altronde, perché poi farlo? In fondo serve a regolare la società forse meglio della stessa politica. Il tribalismo è il solo argine alla corruzione».
E poi c’è il gigante vicino: «In realtà i cinesi non usano strategie politiche ma economiche. Qui quasi tutte le merci vengono dalla Cina. 5,6 miliardi di dollari all’anno, anche se le frontiere chirghise ne registrano solo 400 mila. I cinesi avanzano poco alla volta e usano la politica dei doni: una strada qua, un ministero là, un acquedotto laggiù. Doni, e pure fatti bene».
Sary Chelek: la fierezza
Avevo letto qualcosa su questa località remota della montagna chirghisa, quasi un’oasi di paradiso in una terra per certi versi inospitale. Un lago alpino, romantico e placido, incassato in una regione ricca di flora e di fauna. Per una serie di fortunate circostanze, mi trovo nella modesta ma decorosa casa del signor Meymanaly, bevendo tè verde e mangiando i piatti tipici di questa terra: il beshbarmak, una sorta di zuppa di carne di montone, e l’osh, riso fritto con carote e cipolle, mescolato con spezzatino di montone. Leggo nei suoi occhi la profondità del suo amore, e quello di tutti i chirghisi, per un angolo del loro Paese di cui possono andare fieri.
Il signor Meymanaly, che è consigliere dipartimentale, mi esalta la qualità e la ricchezza della regione: più di cento specie d’alberi, 35 mammiferi recensiti, un migliaio di vegetali e quasi altrettante specie animali. «È un paradiso in terra».
Il lago lo visito alle sette del mattino. L’aria è fresca, la gente è in gran parte già nelle strade, in realtà nell’unica strada del villaggio. I bambini abbondano, tutti belli e sporchi, felici per la loro piena e libera infanzia in compagnia dei batteri e dei microbi. C’è bella gente, non c’è che dire.
Finalmente appare il lago, incantevole. Allora ci si abbandona alla purezza dell’acqua, alle erte che salgono dallo specchio punteggiate di pini, abeti e noccioli, agli uccelli che sorvolano le brevi insenature, ai canneti che penetrano nel lago come onde verdi sulle onde turchesi, alle montagne innevate che a nord scendono dalla catena dello Chatkal Range.
E poco vale se più tardi mi accorgo che anche qui qualcuno ha costruito una sorta di dacia per i notabili del governo, con tanto di sauna e patio e molo. E se un’accogliente famiglia – che mi offre una colazione alla vodka! – qui ha costruito una sorta di ristorante-ostello. Il Kirghizistan è anche nella sua incantevole natura.
Il Sud e l’Islam risorgente
Che cosa ci sia di interessante a Osh appare evidente sin dall’arrivo, perché al centro di essa c’è una grande roccia, il “Trono di Salomone”. La città in effetti data al V secolo a.C., tanto da far dire ai suoi abitanti che «Osh è più antica di Roma». Si attribuisce a re Salomone la sua fondazione. In realtà fu Zahiruddin Babur, re di Fergana e futuro fondatore della dinastia moghul, che qui fece erigere una moschea, in quanto una tradizione islamica antichissima vuole che il Profeta stesso si fosse fermato a pregare in questo luogo. Tra distruzioni e attentati (uno è stato provocato dal Kgb per interrompere il continuo flusso di pellegrini), ora la devozione popolare si manifesta liberamente.
Dall’alto del “Trono di Salomone”, la città si svela grigia e anonima. «Ma è qui che negli ultimi anni sono cresciute nuove tensioni fondamentaliste, tanto che la polizia chirghisa ha dovuto usare la mano di ferro», mi dice un imprenditore che accetta di parlare, ovviamente con la promessa dell’anonimato. E mi spiega: «Qui si sommano le tensioni etniche esistenti in tutta la valle di Fergana – spezzettata dai russi tra chirghisi, uzbechi e tagichi – e quelle religiose, per un islamismo di ritorno che taluni vorrebbero spingere verso un radicalismo che non è patrimonio di questa gente. Oltre il Pamir – che un po’ ci protegge – ci sono Pakistan e Afghanistan!».
Due o tre minareti interrompono la monotonia della città, da cui sale un rumore di gracchianti altoparlanti che sparano musica d’ogni tipo e il vociare continuo della città che mercanteggia. Il resto di Osh è un imponente bazar. C’è di tutto, i luoghi brulicano di gente, nella classica suddivisione degli spazi secondo un preciso codice merceologico che talvolta mi sfugge, come capire perché la frutta deve essere accanto ai vestiti.
Ma tant’è, qui si capisce la natura di un popolo, di un puzzle di popoli, meglio che in qualunque altro posto. Una natura che sarebbe conciliante, che sarebbe fiera, che sarebbe ricca…
Qualche dato
Indipendenza: 25 dicembre 1991
Superficie: 198.500 km²
Popolazione: 4.753.003
Pil (2005): Usd 10.764 milioni
Pil procapite (2005): Usd 2.088
Religione: 97 per cento musulmani
L’artista e la crisi della cultura
Ermek Djenish, già medico e ora artista per fame (guadagnava 40 dollari al mese) fa parte di un noto gruppo del Paese, l’Hudsovet Group, che ha esposto anche a Milano – alla mostra “A est di niente” – sui Paesi ex-sovietici. Veste di nero e i suoi pensieri sono altrettanto scuri: «È difficile vivere in Kirghizistan: si ha l’illusione che le cose vadano bene, mentre è tutta una catastrofe. Le menti si chiudono, ci si rifugia in credenze stupide, si sposa l’Islam senza conoscerlo. La gente prende quel che gli viene dato, perché ha bisogno di credere in qualcosa. E c’è sempre qualcuno che li rassicura». Rivendica l’appartenenza del Kirghizistan al mondo occidentale: «Se finiamo in bocca alla Cina, cosa che purtroppo sta avvenendo, perderemmo anche quel poco che rimane della nostra cultura antica. Purtroppo in Asia centrale tutti sono nemici di tutti».
Mons. Nikolaus Messmer
Un Paese con poca religione
In un modesto alloggio, tutto in stile gesuita, nella periferia nord di Bishkek, incontro il vescovo cattolico, mons. Nikolaus Messmer. È un russo-tedesco, di nazionalità chirghisa, dal 2006 a capo della Chiesa cattolica locale. I cattolici in questo Paese sono un migliaio, la metà dei quali abita nella capitale. Sette sono i sacerdoti, di cui cinque sono gesuiti, e quattro suore francescane. «Una comunità viva – mi spiega –, che partecipa attivamente, anche se è composta nella sua quasi totalità da immigrati. Una comunità che dopo la rivoluzione s’è assottigliata, per l’esodo quasi totale dei tedeschi – i famosi culacchi – tradotti qui da Stalin. Negli ultimi tempi si riscontra un buon numero di matrimoni misti, il che fa ben sperare in un’integrazione della Chiesa cattolica nella società chirghisa».
Mons. Messmer sottolinea la crescente difficoltà di ottenere visti di lunga durata per i religiosi: «C’è paura del fondamentalismo islamico, e non si vuole stuzzicarlo facendo entrare nel Paese altri cristiani, in particolare quei protestanti che hanno una evangelizzazione “aggressiva”: basti pensare che i battisti hanno circa 300 case di preghiera, con gruppi a volte interamente chirghisi. Per gli islamici è evidente che tutti i chirghisi debbano essere musulmani».
Che senso ha restare in questo Paese per un pugno di cattolici? «Ha senso – mi risponde –, perché così la Chiesa c’è. Piccola ma c’è. Facciamo opere sociali per avvicinarci alla gente e cerchiamo di imparare il chirghiso. Godiamo di una certa libertà religiosa, anche se le ultime leggi sono piuttosto restrittive, sempre per la paura di infiltrazioni islamiste dal Sud. Comunque si sta cercando di cambiarne qualche aspetto discutibile».
Con gli ortodossi non ci sono rapporti ufficiali. Con i musulmani i rapporti sono più continuativi, «anche se bisogna considerare che lo stesso Islam chirghiso non ha una grande coesione, essendovi almeno sette tendenze diverse. La nostra posizione è chiara: non facciamo proselitismo, ma curiamo il nostro “gregge” cattolico, e nelle parrocchie abbiamo attività sociali. Comunque, se qualcuno vuole venire nelle nostre parrocchie non possiamo mandarlo via».