L’agenda di Gentiloni a Trump: pace e non armi

Il primo ministro Gentiloni in visita alla Casa bianca e al Centro di studi strategici non cede alla guerra come strumento di risoluzione dei conflitti. La Libia, la Siria, la Corea del Nord richiedono negoziati come con Russia e Turchia.

La conferenza stampa nella stanza est della Casa bianca a chiusura dell’incontro tra il presidente Trump e il primo ministro Gentiloni, in visita ufficiale negli Stati Uniti, si è aperta all’insegna della cordialità, dell’amicizia, dell’ammirazione del magnate americano per le bellezze del Belpaese e del decisivo contributo dato dai 18 milioni di italoamericani sottolineato dal premier italiano. La funesta notizia degli attentati in Francia, ricevuta in diretta, dopo le condoglianze di rito ha fatto esclamare a Trump «è accaduto di nuovo. Non finirà mai» e ha immediatamente riportato ai temi caldi in agenda non solo nel colloquio privato, ma anche nel prossimo vertice del G7 a Taormina: la lotta al terrorismo, l’instabilità siriana e libica, la Corea del Nord, l’Europa.

L’approccio di Gentiloni al nuovo corso di Trump in politica estera è condensato in una parola: negoziare. L’Italia non accetta che siano le armi a siglare la pace e questo sia in Siria dove si riconosce che «Assad non può essere l’uomo del futuro», e servono tavoli di dialogo sotto l’egida dell’Onu, sia in Libia, dove l’idea di creare enclaves per le diverse anime del Paese rischia frantumazioni ulteriori che lasceranno spazi aperti all’Isis e ai suoi sanguinari miliziani. Gentiloni invita invece gli Usa a sostenere un governo libico riconosciuto internazionalmente, capace di mantenere «unita e stabile, la nazione» con l’intento di frenare anche il flusso imponente di migranti che continua ad arrivare sulle coste italiane. Trump declina l’invito dicendo chiaramente che non vede nessun ruolo del suo Paese nella ex terra di Gheddafi, ma sottolinea «che l’America ha già abbastanza fronti aperti ovunque», a sottolineare che non ripercorrerà su quel fronte le scelte del suo predecessore.

 

I giornalisti ammessi alle domande incalzano su Afghanistan, Iraq dove il presidente americano si aspetterebbe maggiore impegno dell’Italia sul campo militare, ma non è questa l’idea di Gentiloni che continua a declinare l’impegno italiano su altri piani umanitari e civili che non prevedono invio di truppe e di armamenti, nonostante in questi due Paesi gli investimenti italiani sono secondi solo agli Usa. «L’Italia continua a lavorare per la stabilità del Mediterraneo, dei Balcani e siamo orgogliosi di questo contributo all’accoglienza, alla stabilità e alla pace e non esistono piani per cambiare questa attitudine». Una steccata elegante a chi all’accogliere ha preferito il chiudere. L’Europa di Gentiloni è fragile ma capace di trasformarsi, mentre Trump la definisce «forte e necessaria»: contraddizione non da poco visto che qualche mese prima aveva plaudito alla Brexit e ai segnali di scricchiolamento. Il nodo dell’Iran viene scansato con «vedremo cosa accadrà» mentre la gestione della crisi con la Corea del Nord viene lasciata alla Cina che «sta lavorando duramente per porre rimedio al problema».

 

Si tocca anche un altro punto critico: il contributo dei Paesi europei e dell’Italia alla Nato: troppo poco l’1.2% per il giornalista della Fox che chiede a Gentiloni di restare fedele al famoso 2% visto che gli Stati Uniti arrivano al 4.5%. Il primo ministro italiano spiega che il patto di stabilità europeo è un vincolo alle finanze del Paese e che poco alla volta questo contributo salirà, ma vanno anche considerate le dimensioni diverse delle due nazioni e anche i diversi fronti di impegni. Non mancano le domande di politica interna sulla riforma sanitaria, e un riferimento alla Turchia e all’incresciosa situazione di Gabriele del Grande. Nella foga di parole di Trump c’è l’annuncio di un possibile incontro con papa Francesco, ma pochi si soffermano sulla frase, anche perché potrebbe essere una di quelle uscite smentita a breve come purtroppo sta accadendo in queste settimane, fin troppo spesso.

 

La vera agenda della politica estera italiana, Gentiloni l’ha dettata sempre a Washington, al Centro di studi strategici internazionali, dove su terrorismo, migrazioni e aree di crisi in Nord Africa presenta strategie di breve, medio e lungo periodo incentrate su sviluppo delle economie locali, prevenzione delle radicalizzazioni islamiche in terra europea e azione congiunta con la Russia che, se isolata, rischia un’impennata di nazionalismo che la storia ci ha insegnato essere estremamente pericoloso. Dice no anche alla tentazione di isolare la Turchia a seguito del referendum, ma fa presente che la linea rossa sui diritti umani tracciata dall’Unione europea continua a rimanere rossa e gela periodicamente i colloqui per un maggiore inserimento nella Ue. Due poi sono le novità che Gentiloni porterà al tavolo del G7: l’invito dei capi di Stato delle maggiori economie africane e il ruolo della colonizzazione cinese del continente nero. «L’Africa è rilevante – ha dichiarato il primo ministro davanti agli strateghi della politica estera Usa – e l’Europa e gli Stati Uniti non possono restarne fuori e lasciare campo solo alla Cina. Partecipare alla crescita delle economie africane, all’implementazione della sicurezza alimentare, loro punto di forza, significa far aumentare il commercio, i servizi, ma anche far desiderare alle persone di restare nel proprio paese. Ci vuole visione». Ed è quello che in molti si augurano e augurano alla nuova presidenza statunitense.

 

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