“L’afide e la formica”, un film dal cuore del Sud

Nel film di Mario Vitale uno spaccato di umanità, dal centro della Calabria, dove il bisogno di scappare dalla propria realtà lega i personaggi protagonisti
formica

Una città del Sud Italia, al centro della Calabria, emblema delle contraddizioni e dei conflitti di tutti i Sud del mondo: la rassegnazione e il coraggio, la sconfitta e la forza di rialzarsi, la sopraffazione e il riscatto, il “si è fatto sempre così” e l’audacia di sognare una vita diversa. “L’afide e la formica ”, primo lungometraggio del regista calabrese Mario Vitale, prodotto da Indaco Film di Luca Marino con il supporto di  Rai Cinema, Mibact e Calabria Film Commission, uscito nelle sale il 4 novembre scorso, rompe qualsiasi cliché o rappresentazione stereotipata sulla Calabria, sul Sud, sul tema dell’integrazione e dei rapporti tra culture diverse, per rappresentare uno spaccato di umanità nel quale ci ritroviamo tutti noi: noi alle prese con il nostro passato, con le nostre ferite, con il dolore, con la volontà di superare i limiti, con la nostra disperazione e la nostra speranza, con la nostra sete di giustizia, con il nostro bisogno mai pienamente appagato di comprensione e di amore.

«Correre vuol dire scappare», dice ai suoi studenti il professore di educazione fisica Michele Scimone, interpretato da Beppe Fiorello. Un “bisogno di scappare” che lega tra di loro i personaggi della storia: Michele vuole scappare da un passato segnato dal dolore estremo di un padre che vede morire ammazzato il proprio figlio, vuole scappare dai troppi silenzi e da una domanda di giustizia che ogni giorno e ogni notte si fa più forte, fino a togliere il sonno; Fatima (Cristina Parku), nata in Calabria da genitori musulmani, vuole scappare da una madre che non le consente di vivere come vorrebbe; la mamma di Fatima vuole scappare dalla realtà, che si ostina a negare, di un marito che non tornerà più a casa, nonostante lei continui a sperare attaccata alla cornetta di un telefono; Anna (Valentina Lodovini) vuole scappare dal tentativo di recuperare un minimo di relazione con Michele, perché sa bene che ciò significherebbe andare a toccare a mani nude la ferita sanguinante di un figlio ucciso e di un bisogno di verità e giustizia messo a tacere da troppi e assordanti silenzi; e vuole scappare anche quel giovane assassino che ha ucciso a freddo e senza pietà un suo coetaneo, perché, come griderà alla madre in un pianto disperato, lui nella sua vita non ha mai avuto la possibilità di scegliere.

Ma se lo scappare fine a se stesso fino a un certo punto può sembrare una mancata volontà di prendere di petto i problemi e affrontarli, quasi come se tutto fosse predestinato a chiudersi tra l’accettazione di un destino che ha già scelto per noi e un passato che imprigiona in un dolore destinato per sempre a restare senza risposte, punto di svolta è il ritorno del “professoricchiu” Michele sui suoi passi, dopo un primo rifiuto: sì, sceglie di allenare Fatima per prepararla a partecipare alla maratona di S. Antonio.

Il velo non costituisce più un problema insormontabile se davvero si vuole correre, se si vuole raggiungere un obiettivo che è quello che Fatima confesserà al ragazzo con cui inizia a frequentarsi: il desiderio di vivere una vita come tutti gli altri.

La corsa, quindi, non è più scappare da se stessi, dai problemi e dai drammi e del passato, ma è esercizio interiore che fa superare i limiti, ci aiuta a guardare prioritariamente dentro di noi senza pensare a cosa dicono o fanno gli altri, allena cuore, mente e respiro per raggiungere traguardi che richiedono salite e discese e poi di nuovo salite. Una corsa che non è mai solitaria o animata dalla pretesa dell’autosufficienza: proprio come gli afidi e le formiche, sentiamo l’esigenza di prenderci cura gli uni degli altri, non nella logica della dipendenza ma del bisogno naturale di reciprocità, che ci contraddistingue come esseri umani, come comunità.

Quelle scarpette che per anni per Michele hanno rappresentato il simbolo di un passato di dolore e di violenza, sono lanciate verso l’alto, segno di una libertà riconquistata perché ha avuto il coraggio di fare i conti e affrontare il passato. Fatima corre, nella scena finale, senza più il velo a coprire i capelli, per una sua libera scelta: non un’imposizione del professore, non una “concessione” della madre. Fatima e Michele corrono perché correre significa scappare dall’immobilismo di un destino segnato, da un passato che non può cambiare, dal “si è fatto sempre così”. Correre verso quella vita che desideriamo, quella felicità che meritiamo.

Nel cast del film, Giuseppe Fiorello, Cristina Parku, Valentina Lodovini, Alessio Praticò, Nadia Kibout, Anna Maria De Luca, Ettore Signorelli. Il soggetto del film è di Mario Vitale e Saverio Tavano, sceneggiato insieme a Josella Porto e Francesco Governa.

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