L’addio di Cesare Prandelli, tra amore e odio
Se nel primo messaggio il tecnico annunciava in modo toccante la sua scelta di lasciare la squadra viola e «un mondo in cui non si riconosce più», il secondo, giunto nella domenica delle Palme, si è reso necessario per rispondere ad illazioni immotivate ed inquietanti reazioni di vari odiatori da tastiera.
Il primo messaggio: «un’ombra dentro di me»
«Nella vita di ciascuno, oltre che alle cose belle, si accumulano scorie, veleni che talvolta ti presentano il conto tutto assieme. In questo momento della mia vita mi trovo in un assurdo disagio che non mi permette di essere ciò che sono. […] Probabilmente il troppo amore per la città, per il ricordo dei bei momenti di sport che ci ho vissuto, che sono stato cieco davanti ai primi segnali che qualcosa non andava, qualcosa non era esattamente al suo posto dentro di me. […] Chi va in campo a questo livello, ha senza dubbio un talento specifico, chi ha talento è sensibile e mai vorrei che il mio disagio fosse percepito e condizionasse le prestazioni della squadra. In questi mesi è cresciuta dentro di me un’ombra che ha cambiato anche il mio modo di vedere le cose. Sono venuto qui per dare il 100%, ma appena ho avuto la sensazione che questo non fosse più possibile, per il bene di tutti ho deciso questo mio passo indietro. Sono consapevole che la mia carriera di allenatore possa finire qui, ma non ho rimpianti e non voglio averne. Probabilmente questo mondo di cui ho fatto parte per tutta la mia vita, non fa più per me e non mi ci riconosco più. Sicuramente sarò cambiato io e il mondo va più veloce di quanto pensassi. Per questo credo che adesso sia arrivato il momento di non farmi più trascinare da questa velocità e di fermarmi per ritrovare chi veramente sono».
Il secondo messaggio: «a tutto c’è un limite»
Smaltito il “trauma” dell’improvviso saluto, città e tifosi hanno sommerso il tecnico di messaggi di affetto, soprattutto per la stima da sempre accordata al tecnico. Poi però, si sono susseguite soprattutto via social una serie di illazioni sul suo conto, come presunti litigi o tradimenti, che il tecnico non ha potuto lasciare senza risposta. «Sono passati pochi giorni da una mia decisione sofferta e molto dolorosa – ha scritto. – Mi sono accorto che qualcuno non ha capito il perché del mio gesto. C’è una minoranza, ma non per questo meno importante che sta riempiendo social con nefandezze, ricostruzioni inventate di fatti mai avvenuti. Gli ‘odiatori da tastiera’ andrebbero stigmatizzati e non gli andrebbe dato risalto. C’è un limite a tutto ed è stato oltrepassato. Lo devo ai miei familiari, alla Fiorentina e ai calciatori che mai mi hanno offeso o mancato di rispetto. Un appello alla responsabilità di tutti: credete alle verità, non correte dietro a fenomeni senza moralità».
A Cesare quel che è di Cesare
Nell’estate 2004, Prandelli rinunciò alla ricca e prestigiosa panchina della Roma (sulla quale poi sedette Spalletti) per «restare accanto alla moglie» Manuela gravemente malata (sarebbe morta nel novembre 2007). Ma forse sono più note le sue rivincite negli anni successivi sul campo, lanciando a Parma giovani talentuosi come Mutu e Adriano e facendo poi sognare a Firenze, con quest’ultimo e Gilardino, la qualificazione in Champions League. Fino a diventare il tecnico che inorgoglì gli sportivi italiani, portando gli azzurri ad allenarsi a Scampia e sfiorando la vittoria dell’Europeo 2012: quello del lancio un giovanissimo Balotelli titolare che annichilì anche la Germania, poi perso solo in finale contro un’inarrivabile Spagna. Forse sono meno noti, di Prandelli, quei soccorsi di beneficienza e quelle opere di carità non spiattellate alle cronache, come anche origini e stile. Nato a Orzinuovi e perso il padre a 15 anni, si diploma geometra mentre cresce nelle giovanili di Cremonese e Atalanta.
Quindi merita sei anni di carriera alla Juventus, seppure raramente titolare, dove vince diversi trofei, tra cui la maledetta Coppa dei Campioni contro il Liverpool allo stadio Heysel: sono sufficienti sei minuti in campo, per assistere alla morte di tanti sfortunati tifosi. Ritiratosi a 32 anni con le ginocchia martoriate, aveva scelto di allenare, pur dimettendosi spesso, come a Lecce agli inizi, quando non si sentì efficace: per lui, non ha mai assunto il significato di essere inadeguato, perché i soldi dell’ingaggio sono meno importanti della coscienza. Come fece ad esempio dopo avere trascinato il Verona con un capolavoro tattico alla promozione in Serie A al primo anno, portandola poi alle soglie delle qualificazioni per la Coppa UEFA l’anno dopo: la società non voleva affrontare il torneo e lui si dimise. Perché da una panchina ci si può anche dimettere, ma nel cuore di chi riconosce umanità e franchezza, si resta sempre in sella.