L’accordo tra Yangoon e Vaticano

Il 10 marzo, dopo un lungo lavoro diplomatico, il ‘"Paese d’oro’’ e la Chiesa cattolica hanno stretto relazioni ufficiali diplomatiche

Il Maynmar è un Paese affascinante: uno degli ultimi rimasti in Asia ancora sufficientemente integro. Ma è anche un Paese tormentato, dove sviluppo, conflitti, lotte etniche e interreligiose s’intrecciano e non accennano a diminuire. Potremmo definire il Myanmar il Paese dal numero di pagode infinito: su ogni collina, cucuzzolo, si ergono delle stupa (chiamati nella lingua locale chedi) a simboleggiare che il luogo è alto, perciò sacro, misterioso e degno di venerazione. La gente “costruisce” piccole stupa per significare che il buddhismo è arrivato in quel luogo prima di ogni altra fede.

Dal 1947 in poi, durante gli anni difficili della guerra civile che è stata la più lunga al mondo in assoluto (70 anni), la Chiesa cattolica ha saputo mantenere una posizione non in di primo piano, ma sempre accanto ai poveri nelle regioni più difficili del Paese; attenta ai bisogni della gente, ma non sotto i riflettori del sistema di sicurezza nazionale, sempre attento e pronto a colpire ogni possibile dissidenza. Un difficile ma direi costante equilibrio che ha permesso alla Chiesa cattolica uno sviluppo su tutto il territorio del Paese, umile, nascosto e silenzioso, ma costante. Soprattutto molti uomini di Chiesa hanno saputo stare vicino a chi soffriva quando nessuno lo faceva; il prendersi cura degli ultimi, fossero crisitani oppure buddhisti o musulmani, ha dato un’immagine pacifica della Chiesa e soprattutto ricercatrice non di gloria o di una presunto successo spirituale, a cui i buddhisti sono sempre molto attenti in Myanmar.

Ma quanti sono i cattolici in Myanmar? Ufficialmente appena l’1% della popolazione, perciò circa 450 mila fedeli, mentre le altre demoninazioni cristiane sono circa il 3% in totale. Tali cifre corrispondono alla verità? In una nazione dove c’è molta paura della crescita delle religioni non buddhiste, molti analisti dichiarano che le cifre potrebbero essere al di sotto della realtà e per evitare inutili gelosie che sono uno dei motivi delle violente lotte di natura interreligiosa del Myanmar.

È notizia di questi giorni che si stanno riaccendendo le proteste contro lo stesso governo da parte di gruppi di buddhisti che protestano la concessione di cittadinanza ai rohingya: una proposta portata avanti anche dalle Nazioni unite a favore di quei cittadini che sono nati in Myanmar ma che appartegono per sangue all’etnia rohingya, perciò di religione musulmana. Le teste calde buddhiste, in primis molti monaci, non vogliono questa concessione che è del tutto legale e richiesta a gran voce dalla comunità internazionale. Nemmeno la premio Nobel per la Pace 1991, Aung San Suu Kyi, capo del governo, può fare molto contro queste frange violente del buddhismo, che non sono marginali ma hanno un certo seguito nella popolazione.

Ora la nuova nunziatura vaticana arriva in un Paese che la diplomazia cattolica conosce molto bene. Le diverse fazioni politiche, militari, etniche e religiose si aspettano una sola cosa: che continui la mediazione da parte delle Chiesa cattolica tra le parti in lotta, almeno tra quelle disposte al dialogo. Tra tutti quale appare la più ostica? Sicuramente quella del buddhismo ufficiale che, forte della sua superiorità numerica, è pronta a scatenare una nuova battaglia contro coloro che sono ritenuti “nemici”: e tutti possono, ad un tratto, diventarlo. Una situazione, questa del Myanmar, non certo semplice, in cui ci vuole l’arte della vera diplomazia che si fa dialogo, ascolto, mediazione, pazienza, comprensione e giustizia.

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