L’accordo di Mirafiori e il ricatto sul lavoro
«Abbiamo firmato per salvare i lavoratori», dice Stefano Biondi della Cisl. Che fine faranno contratti, rappresentatività, bene comune e partecipazione dentro l’azienda?
«È un momento in cui siamo sotto ricatto e il sindacato firma perché non c’è altro da fare» Stefano Biondi a denti stretti confessa il perché della sottoscrizione del contratto proposto da Stefano Marchionne, ad della Fiat , allo stabilimento di Mirafiori di Torino. L’accordo è stato sottoscritto da Fim Cisl, mentre la Fiom Cgil ha deciso di non aderire e si accinge ad azioni di protesta significative.
«Noi siamo consapevoli che in nome della competizione internazionale e della globalizzazione si stanno scavalcando tutta una serie di aspetti anche legislativi, ma prima di tutto c’è la pelle della gente, i lavoratori e se l’azienda va via con chi discuteremo ancora, con chi proveremo a ragionare?». Biondi non nasconde la problematicità che l’accordo di Mirafiori comporterà anche per il suo sindacato, ma prima di tutto per la democratizzazione delle aziende.
Ma l’azienda è guidata dall’interesse e dal profitto, non certamente da esigenze democratiche…
Non possiamo negare che la Fiat ha dato lavoro all’Italia e agli italiani, e il Governo negli anni l’ha favorita. Se non continua a farlo, lo farà, con sgravi fiscali e incentivi, la Serbia, dove non c’è la Fiom, il sindacato, non ci sono scioperi, non ho leggi che mi impediscono di licenziare. La precarizzazione del lavoro è estrema e abbiamo firmato l’accordo per tutelare il bene primario del lavoro. C’è poi una legge e una Costituzione e le aziende dovrebbero sempre inglobare il bene: competizione e profitto non possono essere l’unico parametro, altrimenti prepariamoci alla giungla.
In questa giungla, l’accordo di Mirafiori segna la fine del contratto nazionale?
È vero che tutti i contratti nazionali sono deboli soprattutto in realtà che hanno una dimensione sovranazionale: queste aziende non sono democratiche, con i loro bilanci potrebbero essere come stati sovranazionali che possono ricattare non solo stati del Sud del mondo ma anche dell’occidente. Ci sono bilanci che valgono l’intera Africa e dentro non hanno regole democratiche, per cui al loro interno i lavoratori, i cittadini non hanno peso: le aziende sono delle oligarchie e non rispondono a criteri di bene comune.
Ancora una volta però esce fuori un sindacato diviso…
I contratti nazionali sono in difficoltà anche se rappresentano un elemento solidaristico importante e di equità. Per la catena di montaggio, (che se non la fai non la capisci) si rischia di tornare all’800. La Cgil ha ragione sotto certi aspetti, ma pone male questioni su cui dovremmo riflettere tutti. Il lavoro è una priorità e non possiamo permetterci in questa fase drammatica del paese di perdere questa partita con la Fiat. Mi stona in questo accordo il non riconoscere la rappresentatività e le nostre leggi, ma bisogna prepararsi ad affrontare contratti sovranazionali. Noi dovremmo lavorare su livelli di partecipazione nelle imprese, su problemi redistributivi con obiettivi che magari raggiungeremo tra vent’anni. Invece non abbiamo strumenti adeguati per agire a monte, lavoriamo solo sulle ricadute e non siamo in grado di discutere sulle strategie mondiali che si stanno approntando. Non si può andare avanti così.
Come giudica la plateale uscita della Fiat da Confindustria?
Quest’uscita dice chiaramente che il livello nazionale non tiene neppure per le associazioni imprenditoriali e quindi il problema della rappresentatività tocca tutti i livelli, perchè ci sono limiti enormi anche in Confindustria rispetto alle multinazionali e ai processi che si muovono su scala mondiale. Nel paese abbiamo imprese medio-piccole, solo Finmeccanica, Fiat e poche altre lavorano su scala globale. Le piccole avrebbero bisogno di una forte politica industriale di governo, in questo momento assente e non capace di gestire la situazione a livello internazionale. Non bisogna fermarsi ai soggetti sociali del mercato del lavoro, va analizzato anche il ruolo degli stati che dovrebbero tutelare strutture produttive deboli come quella italiana. Invece tutto si scarica sul lavoro, sui costi e non si pensa ai diritti: ad esempio la maternità è sempre meno tutelata e le donne sono le prime a perdere il lavoro.
Mercato, profitto lavoratori, tre mondi sempre più in conflitto e senza possibilità di incontro…
Bisogna interrogarsi su democrazia economica e d’impresa e quali limiti vanno messi alla gestione selvaggia: non si può lavorare solo sull’abbattimento dei diritti delle persone. Qui bisogna interrogarsi sulla competizione, sul profitto, sul mercato oggi, sugli investimenti. La precarizzazione del lavoro è estrema e non condivo in questo la tesi di Ferrucci. Bisogna privilegiare gli investimenti produttivi perché oggi siamo nella situazione in cui l’imprenditore ha più convenienza ad investire nella roulette finanziaria che sull’attività produttiva vera e propria, dove i margini di profitto sono inferiori e la tassazione è molto più alta.
Ma davvero tassare i patrimoni potrebbe rivelarsi risolutivo? Anche gli economisti lo suggeriscono, ma non ci sono provvedimenti adeguati, mi sembra…
Riporto dei dati che devono far riflettere: il 30 per cento delle famiglie italiane possiede il 70 per cento della ricchezza, livelli abissali da terzo mondo e questo indica che c’è un problema redistributivo enorme. Non si può in quest’ottica penalizzare l’imprenditore e chi crea lavoro; il vero elemento parassitario sono le rendite, perche sono il ricatto del profitto sul lavoro e questo gap di democrazia deve far prendere posizione.
Su Ansanews l’accordo in dettaglio.