L’accordo del secolo?
Dopo tre anni che se ne parla, l’annuncio del Piano Kushner denominato Peace to prosperity per la pace fra Israele e Palestina è stato fatto il 28 gennaio. Però a Washington, non a Gerusalemme. Trump lo ha definito «l’accordo del secolo». Ma accordo fra chi, se i palestinesi non erano neppure invitati? Forse qualcuno alla Casa Bianca ha cercato di chiamare Abu Mazen, ma pare che non abbia risposto al telefono. In ogni caso l’annuncio di un piano unilaterale, indiscutibile e calato dall’alto non si può certo definire un “accordo” ma piuttosto un editto, o un diktat per usare un termine tedesco divenuto di uso comune in diverse lingue.
Secondo l’ideatore del piano, il genero di Trump Jared Kushner, Peace to prosperity sarebbe se non altro «l’opportunità del secolo», il che lascia almeno qualche margine di scelta a chi volesse accettarlo. L’equivoco di fondo, che sembra non scalfire la mente di chi propone un progetto come questo, è di ritenere che la pace per i palestinesi riguardi la prosperità: economia, lavoro, guadagno, benessere, soldi insomma. Viene così fatta balenare la prospettiva di 50 miliardi di dollari di investimenti in 10 anni, un milione di posti di lavoro in Cisgiordania e a Gaza da attuare con 179 progetti (questa la promessa di Kushner), ma in cambio di cosa?
Questi i punti non negoziabili, secondo Trump (e sono solo i principali):
- Gli insediamenti israeliani in Cisgiordania (che sono illegali secondo il diritto internazionale) vengono acquisiti da Israele, insieme a tutta la sponda occidentale della Valle del Giordano;
- Gerusalemme resta la capitale indivisibile (ripetuto due volte da Trump) di Israele;
- i palestinesi riconoscono non solo l’esistenza dello Stato di Israele, ma anche che è uno Stato ebraico (che quindi non concede la cittadinanza a chi non è ebreo);
- i profughi palestinesi dal 1948 ad oggi e i loro discendenti (circa 5 milioni di persone) in Libano, Siria, Giordania e nel mondo intero non saranno mai ammessi in Israele. Stiamo parlando di famiglie che hanno vissuto a pieno diritto e per molte generazioni nella loro terra.
Questo è forse il punto principale che Trump non ha mai capito o non vuole capire: il conflitto non è prima di tutto un fatto economico, ma legato alla terra. Un popolo non può onestamente rinunciare alla propria terra per una promessa di prosperità futura fatta da uno straniero, per di più percepito come ostile, di cui non si fida per molte e provate ragioni.
Se ai 4 punti menzionati sopra, si aggiunge che la “Nuova Palestina” secondo Trump dovrà essere smilitarizzata e spezzettata, e ogni pezzetto verrà in pratica circondato di muri e tenuto sotto controllo armato, non è difficile capire come mai i palestinesi siano così ostili all’“opportunità” che l’“accordo del secolo” offrirebbe loro.
Per i palestinesi, poi, il piano Kushner-Trump avrebbe in realtà un unico scopo, che non ha nulla a che vedere né con i palestinesi né con la pace. Con toni pacati e laconici il neo primo ministro palestinese Mohammad Shtayyeh ha licenziato la presentazione del 28 gennaio a Washington di Peace to prosperity con queste parole: «Ha il solo scopo di proteggere lui [Trump] dall’impeachment, e Netanyahu dalla prigione». Il riferimento per Trump è al procedimento in corso al Senato Usa, che se non riuscirà a condannare il presidente per abuso di potere (questa è l’accusa dei democratici statunitensi), potrebbe gettare un’ombra sulla sua rielezione a novembre prossimo; per Netanyahu il riferimento riguarda l’imputazione di corruzione, frode e abuso d’ufficio e per l’ombra che questo processo potrebbe gettare su di lui alle elezioni israeliane che si terranno il 2 marzo per la terza volta, dopo che le prime due tornate non erano riuscite a dargli i numeri sufficienti per governare.
Netanyahu e Benny Gantz, il leader del partito blu e bianco che contende al Likud la guida di un prossimo governo israeliano, erano presenti a Washington ed entrambi, anche se con alcune differenze significative, hanno ringraziato Trump per il Piano Kushner. Le reazioni internazionali sono state tutto sommato prevedibili nell’ottica degli schieramenti delle varie potenze regionali e mondiali che stanno dietro a tutto nei conflitti mediorientali.
Niente di nuovo sul fronte orientale, allora.