L’abbondanza frugale per evitare il disastro
“Crescita e rigore” è la ricetta per uscire dalla crisi economica. Lo sentiamo ripetere dappertutto.
Ma se non la pensate come un ex presidente statunitense che ha dichiarato “non negoziabile” lo stile di vita eccessivo degli americani, oppure nutrite dei dubbi davanti alle strategie delle case automobilistiche che sgomitano per vendere bolidi ai nuovi ricchi cinesi e indiani, avete qualche punto in comune con gli “obiettori della decrescita”. Per questa rete informale di pensatori e attivisti, non si tratta di rendere più sostenibile, con qualche correttivo, l’attuale modello di sviluppo ma di cambiarlo radicalmente per non andare incontro all’autodistruzione. Non teorizzano colpi di Stato o la presa del potere di qualche avanguardia illuminata. Confidano, piuttosto, in una presa di coscienza dell’umanità in grado di liberarsi da quella che definiscono la religione della “crescita infinita in un modo finito”.
Al contrario di certi famosi editorialisti, non fanno proclami terrorizzanti sull’aumento della popolazione perché, ad esempio, citando anche il caso italiano, possono dimostrare come il declino demografico non impedisca il crescere del consumo di territorio e della diseguaglianza.
Occorre agire nel profondo, «decolonizzare l’immaginario», secondo l’efficace espressione di Serge Latouche, economista francese, uno dei punti di riferimento di questa corrente di pensiero rintracciabile in molti movimenti sociali. A partire da quelli sui beni comuni.
Per Latouche, tutto è cominciato dalla crisi delle sue convinzioni di occidentale e marxista di fronte alla realtà africana. Un percorso che lo ha condotto a scoprire concetti nuovi come il “dono”, alla radice del tessuto sociale, o la “convivialità”, per citare Ivan Illich (1926-2002), il pensatore “anomalo” al quale ritorna spesso.
Nel dialogo esigente e aperto con gli “economisti di comunione”, gli scenari apocalittici non sono ipotesi remote. Luogo di un affollato dibattito, la libreria L’Arcobaleno del polo imprenditoriale Lionello Bonfanti, a Loppiano, in provincia di Firenze, è uno spazio armonico che rivela un’umanità possibile, mentre nelle stesse ore sta bruciando la Grecia umiliata dalla “cosmocrazia” delle oligarchie finanziarie, come le definisce Latouche, al quale abbiamo rivolto qualche domanda.
A suo giudizio è possibile creare imprese di economia civile restando nel mercato?
«Una cosa è una “società con mercato”. Altro una “società di mercato”, dove cioè tutto è mercato e basato sulla logica del “sempre di più”. La sfida di cambiare dentro questa società è una sfida impossibile perché, se l’oggetto rimane quello di fare affari, si finisce comunque per sfruttare i lavoratori e l’ambiente, anche se poi si ridistribuiscono i profitti per curare gli effetti di questo sfruttamento. Etica e affari non sono conciliabili. Se si pensa che il capitalismo di oggi sia basato sulla banalità del male, non ci si salva creando una nicchia, ma uscendo fuori da questa logica».
Quali sono le sue proposte?
«Sono per forza di cose teoriche, per il prevalere attuale di altre concezioni. Ma mi pare evidente come non si possa rispondere alla tragedia della disoccupazione con “austerità e crescita”, come propone da sempre l’attuale presidente del Fondo monetario internazionale. Bisogna rilocalizzare e “demondializzare”, reintroducendo forme di protezionismo per ricreare occupazione. Ridurre gli orari di lavoro per lavorare tutti e vivere meglio coltivando altre relazionalità. Urge un piano di riconversione ecologica per non distruggere il pianeta, a cominciare dalla necessità dell’agricoltura biologica, liberata dai veleni e in grado di creare nuovi posti di lavoro. Occorre rompere il meccanismo che ci porta a consumare sempre di più prodotti, penso agli elettrodomestici, programmati per essere buttati. Puntare al recupero è già un passo verso l’uscita da questo sistema.
«Ma l’attività da cambiare radicalmente è la pubblicità, che si rivela lo strumento più potente per colonizzare le nostre menti, mentre occorre una transizione verso la società che io chiamo dell’abbondanza frugale, capace di porsi dei limiti per il benessere di tutti».
Può bastare la consapevolezza intellettuale per cambiare? Dove vede tracce di un’umanità capace di offrire una risposta credibile?
«Ci sono i segni educativi della follia della crescita illimitata. Catastrofi come il cambiamento climatico e gli incidenti nucleari indicano l’urgenza di mutare rotta nei confronti della logica di mercato che si è estesa a tutti gli aspetti della vita.
«Il movimento delle transition town in Inghilterra è un esempio di collettività che si organizzano in tempo per rispondere alla fine prossima del petrolio e alla deflagrazione del sistema che ne verrà. Vedo l’esperienza di popoli interi, come quello boliviano ed ecuadoregno, che hanno intrapreso la strada del buen vivir, una società di prosperità senza crescita, fino a porre i beni comuni nelle nuove Costituzioni. Ma il cambiamento può avvenire in tempi e modi non prevedibili e improvvisi. Accade così anche per il crollo degli imperi».
Bartolini
Partecipazione e gratuità nel mercato
L’incontro con Latouche pone alcune domande che rivolgiamo a Stefano Bartolini, professore di Economia politica all’università di Siena, e autore, tra l’altro, del libro Manifesto per la felicità: come passare dalla società del ben-avere a quella del ben-essere (Donzelli editore).
Il mercato sembra un luogo estraneo alla gratuità secondo Latouche. Cosa ne pensa?
«Business is business (Gli affari sono affari). È vero, ma devo dire che non sono convinto del fatto che coniugare l’attività economica con altre motivazioni sia illusorio. Conosco imprenditori che fanno la loro attività con una motivazione che non è la ricerca spasmodica di fare soldi».
Quali sono le caratteristiche di un tale modo di fare impresa?
«La partecipazione è la parola chiave che manca nella nostra società, dalla scuola alla politica e, certamente, nel lavoro. Sono strutture congegnate apposta per non permettere la condivisione, mentre la partecipazione è determinante nella vita di un’azienda. Partecipando si lavora meglio. Certo, ci sono tempi più lenti nella decisione, ma la produttività è più alta perché il coinvolgimento, non solo negli utili ma nella gestione, è il fattore decisivo».
A proposito di partecipazione e politica, Latouche afferma che è illusorio cercare di conquistare il potere.
«Certamente si è rivelata illusoria e drammatica l’idea che, per cambiare la società, occorresse entrare nella famosa “stanza dei bottoni” e pigiare i tasti giusti. È un’idea semplicistica e ottocentesca che non si adatta alla complessità del mondo attuale».
Comunque sia, il tempo si è fatto breve, davanti a questa crisi.
«Infatti. Finora abbiamo visto il trailer della crisi economica. Quando comincerà ad essere proiettato il film vero e proprio, l’esito sarà imprevedibile. Abbiamo l’esempio dei regimi autocratici che si sono imposti dopo la crisi degli anni Trenta. Bisogna perciò liberarsi dall’idea che non esista alternativa a questo sistema di cose. Come dimostro in tante analisi sull’aumento dell’infelicità nella società contemporanea, dall’incremento delle malattie mentali al consumo degli antidepressivi, questo stato di cose non funziona. Dati scientifici alla mano, posso testimoniare che un cambiamento culturale e l’aspettativa di una soluzione alternativa a questa follia è molto forte e i segnali sono comparsi molto prima dell’esplodere della crisi finanziaria del 2007».
Bruni
Decrescita di cosa e per cosa? Serve un nuovo patto
di Luigino Bruni
Il tema della decrescita è un tema ambivalente. Quindi le cose più importanti e rilevanti vanno cercate nelle sfumature. La prima domanda che va posta al centro di un dibattito serio attorno a questo tema è la seguente: decrescita di che cosa? È, infatti, evidente che ci sono delle dimensioni dell’attuale modello di sviluppo capitalistico che possono e dovrebbero decrescere se vogliamo migliorare il benessere delle persone e la sostenibilità del pianeta.
Queste dimensioni sono l’impronta ecologica, troppo pesante nell’Occidente opulento, le merci, soprattutto i beni vistosi, posizionali, di confort (televisori, telefonini, automobili), che hanno un bilancio tra costi e benefici molto negativo e incivile: tutte le volte che esce un nuovo modello di cellulare o un nuovo tv al plasma, il nostro benessere in termini di confort forse aumenta dello 0,001, ma i costi ambientali e sociali sono di gran lunga maggiori. Si pensi, ad esempio, allo scandalo di quanto sta avvenendo in Africa per accaparrarsi le riserve di minerali oggi essenziali per produrre telefonini.
Quindi, se oggi fossimo capaci, a partire da noi consumatori (questo è un tema cruciale), di orientare capitali e risorse verso nuove forme di energia e di consumi a servizio del bene comune, otterremmo tutti un grande miglioramento e la Terra respirerebbe di più.
Personalmente la declinazione della decrescita che amo è la decrescita del peso dell’economico (inteso come scambio mercantile) all’interno della vita civile. In Occidente, negli ultimi decenni, stiamo riempiendo il vuoto lasciato dalla famiglia tradizionale e dallo Stato con un mercato sempre più pervasivo: dalla cura alla scuola, dalla sanità al tempo libero. Oggi dobbiamo liberare le energie e le forze della società civile e dei cittadini che tornino a creare spazi per relazioni di gratuità sottraendole al mercato for profit. Non è sostenibile una cura degli anziani e dei bambini affidata prevalentemente al mercato. Oggi accompagnare alla morte un anziano malato di Alzheimer è un’impresa che spesso impoverisce intere famiglie, rende insostenibile la vita di figlie e nuore, a meno che non si riescano ad attivare reti di prossimità e di vicinato. Sarà sempre più vero che per crescere un bambino e accudire un anziano “ci vuole un intero villaggio”.
Ecco allora l’urgenza di una decrescita degli scambi economici e monetari per una crescita degli scambi e degli incontri di reciprocità; di una decrescita delle merci per una crescita dei beni relazionali, dei beni comuni, dei beni ambientali, dei beni spirituali, del ben-vivere o, come dicevano gli economisti toscani del Settecento, del Benestare.
In tutto questo discorso è molto importante il tema del lavoro: sono convinto che oggi sia necessario nei Paesi avanzati ridurre il tempo di lavoro all’interno del tempo di vita ma con due note: la prima è che il tempo di lavoro non va inteso solo come orario giornaliero di lavoro ma nell’arco dell’intera esistenza. In particolare, va superata la visione tipica della società fordista del secolo scorso: da giovani si studia, da adulti si lavora e da anziani si è in pensione. Oggi dobbiamo iniziare a immaginare, dando vita ad un nuovo patto sociale, la possibilità reale di studiare durante gli anni del lavoro, non solo come hobby e come attività totalmente periferica, ma rendendo possibile a tanti di prendere lauree e dottorati anche in età adulta, alternando ad esempio 5 anni di lavoro con un anno di studio: diventeremo così meno obsoleti come lavoratori e arriveremo alla pensione meno sfiniti anche se un po’ dopo.
La seconda nota: non dobbiamo fare l’errore grave di contrapporre la vita economica ai beni relazionali e alla gratuità. C’è tanto dono nel lavoro, anche se la nostra società non lo vede, e dobbiamo fare in modo di riempire i luoghi del lavoro con tanti beni relazionali e con tanta gratuità. Il lavoro, l’economia e il mercato sono pezzi di vita, sono i luoghi anche delle passioni e delle virtù, e se non siamo capaci di costruire i luoghi dell’economia e del lavoro come i luoghi dell’umano tutto intero, si rischia il grave pericolo di immaginare una economia sociale e solidale che nasca solo per l’1 per cento dell’umanità, abdicando così al compito di umanizzare il restante 99 per cento (imprese, uffici, scuole…).
La grande sfida che ci sta di fronte allora è quella di costruire una nuova casa comune, un’oikonomia dove l’artigiano, l’imprenditore, il contadino, il funzionario pubblico siano tutti alleati per un nuovo patto sociale.