La zitella e il dio denaro
Il premio Nobel 1961, autore de Il ponte sulla Drina, era un uomo estremamente riservato: non parlava volentieri, tantomeno in pubblico; fuggiva le interviste ed ogni forma di pubblicità. Dignitoso e gentile, tuttavia, sembrava custodisse un segreto. Sì, anche per chi lo conobbe più da vicino, Ivo Andrić costituiva un mistero. A motivo delle sue origini bosniache e dei suoi interessi culturali allargati all’universo ottomano, fu il più autorevole portavoce di una terra – i Balcani – che come poche ha visto l’incontro e lo scontro di popoli, culture e religioni. Non credeva nel potere della letteratura di risolvere conflitti del resto secolari; ma non poteva fare a meno di scrivere, quasi obbedendo ad una missione. Entrato in gioventù a far parte della Giovane Bosnia, associazione rivoluzionaria che fra i suoi adepti contava Gavrilo Princip, l’uccisore dell’arciduca Francesco Ferdinando, fu condannato a tre anni di carcere, esperienza tanto più traumatica per uno ipersensibile come lui, che tuttavia seppe trasfigurarla letterariamente.
Come scrittore venne tacciato di pessimista dalle menti del Partito comunista, che da lui si aspettavano più entusiasmo riguardo alle felici sorti future. Eppure nei suoi romanzi, dove spesso ricorre l’immagine del ponte, simbolo di una volontà di unione oltre ciò che divide, troviamo affermazioni folgoranti circa la comprensione e la solidarietà tra genti diverse. Come questa, tratta da La cronaca di Travnik: «Malgrado l’apparente frammentazione e il caos in cui viviamo, tutto è armoniosamente collegato. Non un solo pensiero va perduto, non uno slancio dello spirito. Siamo tutti sulla buona strada, e quando ci incontreremo ne saremo sorpresi. Ma ci incontreremo, e ci comprenderemo tutti, qualunque strada abbiamo percorso e ovunque, errando, siamo finiti».
Quando la morte lo colse nel 1975 a Belgrado – buon per lui non dover assistere, tra la fine degli anni ’90 e l’inizio dei 2000, alla dissoluzione dei Balcani – fu come perdere il nume tutelare di quella Jugoslavia che, all’epoca, in campo culturale, rappresentava un amalgama che solo oggi viene riconosciuto come fondamentale e significativo per l’Europa: spariva il romanziere e il diplomatico che invano aveva tentato di difendere l’indipendenza della Jugoslavia, e al tempo stesso il saggio ben radicato nel presente e fiducioso nell’avvenire, benché con moderato entusiasmo.
Di Ivo Andrić, Bottega Errante ha di recente pubblicato La Signorina, che completa la cosiddetta “trilogia dei Balcani” iniziata con Il ponte sulla Drina, ritenuto il suo capolavoro, e proseguita con La cronaca di Travnik: tre romanzi usciti nello stesso anno 1945: un vero record!
La Signorina del titolo (sempre con la S maiuscola) è Rajka Radaković, che da ragazzina assiste al tracollo economico e spirituale del padre, un commerciante serbo di Sarajevo sommerso dai debiti, che prima di morire impone alla figlia un tremendo giuramento: per non finire come lui dovrà votarsi al dio denaro e al risparmio, obiettivo da perseguire senza cedere ai sentimenti.
Rimasta sola con la madre – una donna eccessivamente remissiva – Rajka inizia il suo apprendistato nel mondo degli affari per far fruttare quanto resta del capitale paterno. Ossessionata dal risparmio, taglia tutte le spese ritenute superflue, dai viveri ai vestiti agli arredi di casa; e dopo aver abbandonato scuola e amicizie frequenta solo parenti e conoscenti dai quali poter ricavare un utile. L’unica persona alla quale è affettivamente legata, pur disapprovandone lo stile di vita dissipato, è suo zio Vlado: un giovane piacente e allegro la cui morte prematura, dovuta ai suoi eccessi, la sprona ad accumulare denaro con maggior zelo, arrivando a praticare l’usura.
Anche quando l’assassinio a Sarajevo dell’erede al trono d’Austria scatena la Prima Guerra mondiale, l’unica preoccupazione di questa donna, insensibile alle sorti del popolo serbo e dei propri parenti, è di barricarsi contro gli eventi esterni che stanno stravolgendo tutto un mondo e mettere in salvo i propri soldi. Con l’aiuto di un commerciante ebreo riuscirà a portare a buon fine diverse speculazioni, attirandosi però, per la sua avidità spregiudicata, l’ostilità di buona parte dei concittadini.
Terminata la guerra, per timore di ritorsioni si rifugia a Belgrado dove una tardiva passione per un giovane medico, un vero furfante che l’inganna e si fa prestare grosse somme, la distoglie per qualche tempo dal giuramento fatto al padre. Solo la successiva amara disillusione la riporterà al primitivo obiettivo. La Signorina, rimasta sola dopo la morte della madre in una casa ormai spoglia di tutto come la sua umanità inaridita, è un personaggio tragico, simbolico, indimenticabile, capace di suscitare in chi legge, se non simpatia, profonda pietà.
In questo romanzo potente, ma ingiustamente sottovalutato, Andrić traccia un grande affresco della frammentata realtà balcanica. Partendo dalla storia personale di un’ossessione, immerge il lettore nella Sarajevo nei primi decenni del Novecento: un calderone di etnie e religioni (croati, serbi e bosniaci, musulmani, ebrei e cristiani) che nei secoli avevano imparato a convivere. Alle vicende claustrofobiche di questa zitella che ha rinunciato alla vita per un presunto dovere fanno da contrappunto – con la loro vitalità – alcuni personaggi comprimari, ciascuno dei quali incarna un aspetto della complessa storia dei Balcani.
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