La zattera della Medusa

Al Louvre, contemplando il capolavoro di Théodore Géricault. Quando un fatto di cronaca, attraverso la trasfigurazione artistica, assurge a simbolo della condizione umana, valido per tutti i tempi
La zattera della Medusa

Eccola – siamo al Louvre – l’enorme tela. Ancora più immensa di quanto lascino supporre le riproduzioni e le misure: ben 4,91 metri per 7, 16. Sarà la potenza drammatica della scena, che ti scaraventa in pieno oceano, fra onde plumbee e corrucciate, su una zattera semisommersa, a condividere la sorte di chi vi è aggrappato, ma ti afferra un senso di sgomento.

Lo sguardo va dall’uno all’altro di quei naufraghi la cui vita è sospesa a un filo (altri giacciono moribondi o sono già morti), tutti in vario modo atteggiati, con i segni dell’abbattimento, della speranza, dell’ira, della disperazione…; ma si finisce per essere calamitati a quella sorta di piramide umana in cima a cui c’è chi si sbraccia a fare inutili segnali verso una vela troppo lontana.

Con i corpi appena coperti da lacere vesti, quando non ne sono privi del tutto, essi non appartengono a nessuna epoca: il naufragio potrebbe essere avvenuto ai tempi di Omero come ai giorni nostri. E ti senti anche tu, per un momento, naufrago di qualcosa, fragile creatura sperduta in mezzo a un mondo deserto e ostile, a cercare attorno una via di salvezza.

È proprio l’effetto che si proponeva Théodore Géricault, quando nel 1819 riuscì a esporre questa che sarebbe stata la sua opera più discussa e famosa, forse il suo capolavoro: La zattera della Medusa. Fonte ispiratrice uno dei più foschi drammi marini, tale da assumere valore esemplare e di riferimento per tutti gli altri.

Nel luglio 1816, per un insieme di fatalità e di imperdonabili errori umani, la fregata francese Medusa s’incagliò a breve distanza dalle coste del Senegal. Gran parte dell’equipaggio e dei passeggeri scampò su scialuppe, ma 147 infelici furono abbandonati sopra una zattera ed errarono per 17 giorni, uccidendosi e divorandosi fra di loro. Quando finalmente vennero tratti in salvo, ne rimaneva in vita appena una quindicina.

Tutta la Francia rimase scossa dal sinistro, e il successivo scandalo che coinvolse la marina, attizzato dagli oppositori del regime di Luigi XVIII, sfociò in un processo con la condanna dei responsabili; ma prima che le polemiche si placassero ne passò di tempo.

L’immenso scalpore suscitato dalla Medusa destò l’interesse anche del giovane Géricault, pittore noto fin allora per alcuni notevoli ritratti e per dipinti ispirati a fatti di cronaca e alla vita militare (stravedeva per cavalli e divise, lui che era stato fra i moschettieri del re). Natura sensibile e generosa, si convinse di aver trovato in quella vicenda di morte e di dolore “il grande soggetto”, la prova più impegnativa della sua carriera d’artista, che avrebbe consacrato il proprio talento, consegnandolo ai posteri. Ne fu letteralmente travolto.

L’opera, nei suoi intenti, doveva essere un omaggio a quel Michelangelo verso cui nutriva immensa ammirazione, ma al contrario di lui avrebbe celebrato l’uomo senza Dio, o meglio, l’uomo a cui Dio rimane nascosto, lontano. Nell’accingervisi, Géricault intraprese una delle preparazioni più meticolose cui mai artista si sia sottoposto per dar concretezza al suo mondo interiore: si documentò sul naufragio, intervistò alcuni dei sopravvissuti, frequentò ospedali e fece ricerche su pezzi anatomici, realizzò un numero prodigioso di schizzi e bozzetti; e dopo tutto questo, rapatosi a zero per non perder tempo a pettinarsi, si chiuse nel suo studio mettendosi a dipingere come un forsennato.

Purtroppo, al suo apparire, La zattera della Medusa non suscitò i consensi sperati: la quasi totalità dei critici, infatti, pur non riuscendo a sottrarsi al fascino del dipinto, non lo comprese e ne rimase sconcertata, tanto esso esulava dai canoni dell’arte accademica. Chi concepiva l’arte come consolazione ed espressione del bello, esaltatrice dell’uomo, si trovava di fronte ad uno spettacolo squallido di abiezione; mentre chi si aspettava un protagonista, un eroe, si imbatteva in una massa prostrata e anonima. Lo stesso colore cupo, livido e quasi uniforme della composizione ripugnava. Molte delle critiche erano poi dettate da motivi politici. E là dove Géricault aveva inteso esprimere solo la pietà umana davanti a una tragedia del suo tempo, si vedeva una denuncia del regime e dell’inefficienza della marina francese.

Ben diversa fu invece la reazione della gente comune, affluita in massa a entusiasmarsi e commuoversi davanti alla Zattera. In consenso degli umili, tuttavia, non riuscì a consolare l’artista che, sfinito dallo sforzo compiuto, deluso dall’incomprensione, si ammalò. Altro che farsi acquistare dallo Stato, come si era lusingato, una tela così enorme! Questo sarebbe avvenuto, sì, ma solo nel 1825, un anno dopo la sua morte precoce a trentatré anni.

È stato detto che quest’opera, considerata il manifesto del Romanticismo, intrisa di neoclassicismo ma anche crudamente realistica, non può ricondursi a un’unica scuola: e in effetti ogni autentico artista (e Géricault lo era, per quanto limitata nel tempo sia stata la prova data di sé) va anche oltre la sua scuola: in un certo senso è un’opera che annuncia la pittura moderna, esprimendo l’angoscia dell’uomo che, perso il suo riferimento con l’Assoluto, si sente abbandonato da Dio.

Non a caso, tra tutti i momenti vissuti sulla zattera, Géricault scelse di rappresentare non l’allegria delirante dei sopravvissuti allorché furono certi di essere stati avvistati dal brigantino Argo, ma la loro disperazione la prima volta in cui, scorto il veliero in lontananza, cercarono invano di richiamarne l’attenzione.

Viene da chiedersi se, senza questo celebre dipinto, il tragico naufragio della Medusa sarebbe ancora così vivo nell’immaginario collettivo. Probabilmente no. Non sono mancati infatti, in epoche successive, disastri marini ancora più truci, compreso l’ingrediente dell’antropofagia. Merito di Géricault è di aver saputo elevare, con la sua arte, un fatto di cronaca a evento universale, che può parlare all’uomo di sempre.

Egli ne ebbe l’intuizione, ma non la conferma che avrebbe potuto alleviare il suo dramma personale: morente, infatti, si rammaricava di non aver concluso nulla nella sua così breve carriera, se nella stessa Zattera, su cui aveva puntato il tutto per tutto, gli sembrava di aver realizzato più che altro una “vignetta”. Non sapeva che, dipingendo la sofferenza umana, avrebbe finito per uscire vincente anche lui, come su una fragile zattera, dal rigoroso esame del tempo.

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