La voce dell’Altipiano
La ricorrenza dei cento anni dallo scoppio della Prima guerra mondiale – la Grande Guerra per antonomasia – mi riporta alla memoria una visita fatta nel luglio 1999 all’altipiano detto dei Sette Comuni, in Veneto, e precisamente al suo centro principale: Asiago. Appena arrivato in questa località rinomata per il turismo estivo e invernale e il cui nome è legato anche a prodotti caseari noti in tutto il mondo, mi recai sul colle del Leiten (1058 metri sul livello del mare), dove sorge l’imponente sacrario militare: un marmoreo arco quadrifronte dove riposano i resti di decine di migliaia di soldati italiani e austriaci morti in quell’immane conflitto. Soldati… e prima ancora studenti, professionisti, artigiani, contadini, montanari, figli, fratelli, mariti, fidanzati. Ma l’omaggio un po’ retorico di questo genere di monumenti non mi pareva rendesse piena giustizia a tante giovani vite stroncate.
Uscii all’aperto. Dall’alto del colle lo sguardo spaziava sul verde altipiano, su Asiago rinata dalle macerie del ’18 (qui si scatenò la battaglia passata alla storia come l’"offensiva di primavera") e poi decorata al valor militare per la sua lotta partigiana durante la Seconda guerra mondiale. E il pensiero andò a un suo illustre figlio, Mario Rigoni Stern, che di lì a poco avrei incontrato: scopo della mia venuta era infatti una intervista all’autore de Il sergente nella neve, il romanzo – poi trasformato in monologo da Marco Paolini – che lo rivelò come scrittore. Ecco forse, mi dissi, chi ha eretto un monumento ben più vivo e duraturo a quei soldati morti. E non solo a loro, ma a quanti di quelle contrade nei suoi romanzi e racconti tornano ad essere persone vere, con le loro debolezze e i nascosti eroismi: quasi nostri “paesani” che chiedono solo di fare un po’ di strada in nostra compagnia, magari filosofando un po’ con quel sano buon senso della gente di montagna. È l’umile grande epopea descritta in tante pagine indimenticabili da questo mite e virile cantore dell’Altipiano, che può ricordare un po’ Tolstoj e un po’ Virgilio.
La casa dove 35 anni prima i Rigoni Stern erano venuti ad abitare era fuori paese, al limitare di un bosco, tra pini silvestri, betulle, ciliegi, larici, tigli…: alberi piantati per lo più dallo scrittore, che al tempo stesso faceva opera di bonifica dai residuati bellici oltre che di rimboschimento. Non saprei quale altro autore abbia avuto, come lui, un rapporto così privilegiato con queste creature che, per raggiungere il pieno sviluppo, hanno bisogno di decenni. Di qui la sua preoccupazione se ciò di cui stava narrando valesse la carta e quindi l’albero sacrificato. Forse per questo scriveva con parsimonia, quasi seguendo ritmi "naturali", e i titoli che ci ha lasciato non sono moltissimi: tutti però rispecchiano un’"arte del vivere", frutto dell’aver assaporato il mistero e la sacralità dell’esistenza umana. Non solo: nei suoi libri anche ciò che è più umile e quotidiano assume dignità di "personaggio" necessario all’economia dell’universo.
Ero pertanto ansioso di trovarmi a tu per tu con questo contemplativo dallo sguardo benigno che sapeva vedere il bello anche quando trattava di argomenti dolorosi: li trasfigurava in qualcosa che non lasciava un sapore d’amaro, ma apriva comunque alla speranza. Lui però non c’era: era salito fin dal mattino sull’Ortigara assieme ad un amico di Palermo. A intrattenermi nell’attesa era la moglie Anna, una signora vivace ed elegante, venuta a prelevarmi in auto nella piazza principale di Asiago. Quando le chiesi se leggeva gli scritti del marito prima della pubblicazione, sorrise e fece cenno di no: «Sa, se la prende un po’ nel caso che lo critico… Ma guarda un po’ quanto ci mette ad arrivare!».
E lui arrivò, lo sentimmo salire le scale. Eccolo, il volto assorto e un po’ melanconico, camicia di flanella a quadri, spolverata di cenere di pipa, e pantaloni di velluto a coste. Si scusò per essersi attardato a "ciacolar", ma a me sembrò bello pensare che le rimembranze con l’amico sull’Ortigara potessero diventar materia per qualche nuovo racconto. Si concesse senza fretta, da persona che conosce la ricchezza del momento presente. E schivo com’era, quando poi uscimmo in giardino, s’assoggettò con pazienza alle mie richieste di fotografo maldestro.
Di Mario Rigoni Stern apprezzai, nel tempo a me dedicato, la modestia, la saggezza e concretezza del montanaro che vive a stretto contatto con la natura e le sue creature. La sua semplicità non era banalità, era essenzialità. Come la sua scrittura limpida, piana: in realtà il risultato di un assiduo lavorìo per arrivare a farsi capire da tutti.
Dell’intervista allo scrittore allora settantottenne, avvenuta nel salotto di casa, riporto questi brani che mi sono diventati preziosi, dopo la sua morte avvenuta nel 2008:
«Senza il ricordo, è come se certi eventi non fossero avvenuti. Ricordare, da parte di uno scrittore, è anche rendere giustizia a quelli che non ci sono più. Perciò, prima che opera letteraria, la sua è un’opera di umanità. Quaggiù, uno muore veramente quando è dimenticato. La vita al di là è un altro discorso. Perciò quando il pensiero va agli amici della giovinezza morti per malattia o in battaglia o emigrati in giro per il mondo, è come se fossero ancora con me. Non li ricordo con dolore, non piango sulla loro memoria: li sento come quando ero con loro e loro con me».
«Se noi leggiamo la storia ufficiale di grandi avvenimenti come le guerre mondiali, che hanno coinvolto, la prima, la mia famiglia, e me la seconda, vediamo come spesso essa non arriva al cuore degli uomini, mentre una cartolina scritta dal fronte da un soldato semianalfabeta ci dice, di quel periodo, qualcosa di più che non la relazione di un capo di stato maggiore: perché le tracce cariche di umanità sono le più profonde».
«I miei ricordi più remoti hanno attinenza con l’inverno. Ero nella culla e vedevo luccicare alla fiamma della stufa che mia madre accendeva in camera le pareti e i vetri della finestra diventati lastre di ghiaccio… Doveva essere un inverno molto freddo quello, da superare i 30 sottozero. Ricordo anche il lumino che sempre lei accendeva sul comodino e il presepio di Natale. Sono questi i miei primi ricordi d’infanzia. L’inverno poi lo ricordo non soltanto per via delle gare di sci, ma anche per la ritirata in Russia e la prigionia. È stata per me la stagione più tenera e drammatica».
«Le brutture e le cattiverie dell’uomo io le ho viste e subìte. Però il sorriso di un bambino, un’alba, una pioggia di primavera, un prato fiorito, anche una buona lettura o l’azione più semplice come, non so, un buongiorno detto da uno mentre stai passando un momento triste, malgrado tutto ti danno speranza».
«Le prime pagine di Storia di Tōnle le avrò riscritte una diecina di volte per sostituire un aggettivo, spostare un verbo o anche solo cambiare una virgola. Cerco poi di usare parole semplici, intellegibili a tutti. Chi scrive difficile talvolta non ha gran che di valido da dire. Se lei prende lo scritto di un letterato raffinato e lo fa leggere a persone comuni come potremmo essere io o lei, sentirà dire: mah, questo non mi convince. Gli fa leggere invece un racconto di Tolstoj o di Cechov, e tutti comprendono».
«Per carità, non mi ritengo uno scrittore importante; però le cose che dico voglio che la gente le capisca. Sono uno scrittore per la gente, che racconta quel che ha visto e vissuto. Non ho un particolare pubblico a cui rivolgermi: ragazzi, adulti, professori universitari, critici letterari… Scrivo per chi mi vuol leggere. Sta poi ai lettori trarre le loro conclusioni. Non mi propongo di lanciare messaggi o di affrontare problematiche (tutte parole che non amo). Vorrei che la gente si guardasse un po’ intorno e riflettesse su qualcosa».
«Ogni giorno ricevo lettere. A tutte io rispondo. E poi ci sono le scolaresche che verso primavera e alla fine dell’inverno vengono in Altipiano, perché hanno letto i miei libri e vogliono incontrarmi. Mi chiedono della guerra, della natura, degli animali. Io ascolto con grande attenzione soprattutto quelli delle elementari e delle medie, che trovo molto spontanei e sinceri, e pieni di curiosità».
«I miei libri più riusciti? Storia di Tōnle, L’anno della vittoria e Le stagioni di Giacomo. L’uno si collega all’altro, e nell’ultimo troviamo anche personaggi del primo. È singolare che queste storie che sembravano scritte per la mia gente dell’Altipiano sono lette e apprezzate anche all’estero, in contesti culturali diversissimi: Giappone, Russia, Inghilterra, Svezia…».
«Mi capita di ricevere dei manoscritti o dei libri di cui si dice: è un capolavoro. Ma i capolavori nascono, per essere abbondanti, una volta ogni secolo! Di autori che cinquanta-sessant’anni fa sembravano immortali oggi più nessuno parla. Perché, vede, bisogna aver coscienza dei propri limiti. Allora lasciamo al tempo giudicare».
«Amo il silenzio. Il rumore cittadino non fa sentire le voci degli uomini, e questo è triste. Qui posso scorgere il paese dove son nato, ricevo gente, osservo gli uccelli che fanno il nido attorno a casa; a volte la mattina sorprendo un capriolo qui dietro, una volpe a volte sale su per le scale. Ogni tanto scambio qualche parola con Ermanno Olmi, il regista, che abita qui accanto. Ho i miei libri, il mio orto, così tante cose da fare che non posso annoiarmi. Non mi ci vedrei a vivere in città».
«C’è sempre nell’uomo l’ansia di conoscere, di scoprire cose e posti nuovi (è il caso di Ulisse); ma poi finisce sempre per ritornare nei propri luoghi. Perché è là che ritrova sé stesso».
«È difficile distruggere la vita completamente. La sua forza è immensa. Qui, dalle macerie della guerra, l’Altipiano è rinato».
«La pace è il più bel dono per l’uomo, la fonte di tutte le altre consolazioni. Nella pace si vive, si ama, si costruisce, si crea. La pace potrei definirla la continuazione del paradiso terrestre».
«Per imparare a scrivere bisogna leggere molto, tanti autori; poi dimenticare tutto e scrivere quello che uno ha dentro di sé».
L’ultima mia richiesta a Mario Rigoni Stern fu di poter visitare lo studio dove lavorava. A questo punto si scusò: lì non c’entrava nessuno. Nemmeno il suo editore e forse neanche sua moglie. Conclusi che forse era meglio così. Stimolava l’immaginazione. E me lo figurai alla scrivania, mentre con gesti misurati batteva i testi di una macchina da scrivere piuttosto antiquata (sarà stato proprio così?), correggeva e scriveva ancora. Aveva aperto la finestra per lasciar entrare l’aria, la luce, le voci del bosco, di cui spiava la crescita incessante.
Da Roma, anche per ringraziarlo, gli mandai in dono un libro che mi aveva toccato fin nel profondo: Konin, la città che vive altrove (Instar Ed.). Riguardava una piccola cittadina polacca che al tempo dell’ultima guerra si trovava a poche decine di chilometri dalla frontiera con la Germania. Quando nel 1939 le truppe dell’esercito tedesco invasero la Polonia, Konin fu uno dei primi centri a essere “ripuliti” dalla presenza ebraica. Dei tremila ebrei che vi abitavano, infatti, non ne rimase uno; l’antico villaggio con la sua sinagoga, la preziosa biblioteca e le scuole, da allora non esiste più. L’autore, Theo Richmond, figlio di genitori nati a Konin, per sette anni ha inseguito il passato tra archivi e viaggi alla ricerca dei sopravvissuti, dispersi in tutto il mondo, raccogliendo documenti d’ogni genere. Un libro struggente, dove gli stessi oggetti “parlano”, testimoniano un luogo e persone che non ci sono più. Pensavo che un libro del genere non sarebbe dispiaciuto a uno come Rigoni Stern, per il quale ogni cosa esistente, anche la più umile, diventa, nei suoi libri, “personaggio” e ha pari dignità, perché creata da quel Dio che egli, per pudore, non nominava invano.
Nel 2006 usciva un suo nuovo libro: Stagioni (ancora per i tipi di Einaudi, che ha pubblicato tutta la sua opera). In tempi in cui la natura era pesantemente attaccata dalla sconsideratezza umana e gli stessi cicli climatici sembravano sconvolti, quasi per reazione Rigoni Stern tornava ai suoi temi prediletti, rievocando – era o no il poeta della memoria? – grandi avvenimenti della storia e piccole vicende personali, antiche tradizioni ed incontri con personaggi umani o del bosco attraverso il ciclo vitale delle stagioni, in un continuo riandare dal passato al presente e viceversa, seguendo le riflessioni del momento. Suddiviso in quattro capitoli quante sono appunto le stagioni, il libro ripropone con prosa limpida e plastica i ritmi della natura e le vicende umane da essi condizionati, ristabilendo a suo modo l’ordine iscritto nella creazione: ordine liberante, attenendosi al quale l’uomo ritrova veramente sé stesso e l’armonia con gli altri esseri.
Con l’occasione dell’uscita di Stagioni, raggiunsi telefonicamente lo scrittore nella sua casa di Asiago per una nuova intervista. A dire il vero, lui non amava questo genere di approccio che non consente di guardarsi negli occhi e, perché no?, di condividere un bicchiere di buon vino. Ed anche «perché poi i giornalisti mi fanno dire quello che vogliono loro». Ma l’aveva rassicurato la promessa di fargli leggere il testo prima di pubblicarlo. Breve e cordiale l’intervista. Aveva la voce gagliarda che ricordavo dall’altra volta. Del resto, faceva ancora escursioni in montagna e curava personalmente il suo orto. Nel ringraziarlo, gli chiesi l’indirizzo di posta elettronica a cui inviare l’articolo appena pronto: «Non ho né posta elettronica né computer – rispose –; scrivo a mano con la penna stilografica e quando è senza inchiostro la ricarico. Può però spedirmi il testo via fax». Ai saluti niente parole superflue, solo l’augurio di una «buona primavera». E nell’ultimo suo biglietto del settembre 2007, quello di «un bell’autunno in buona salute».
Non a torto, Mario Rigoni Stern riteneva la narrativa la forma più diretta di offrire un messaggio. Da vero scrittore della memoria, fu una voce contro il silenzio, la dimenticanza. In tarda età, con passione civile, si batté nel modo a lui più consono – attraverso la stampa – per difendere l’uomo e la natura dalle devastazioni del consumismo e da altre insensatezze. Si rammaricava quando, soprattutto in qualche giovane, vedeva disorientamento, mancanza di fiducia nel futuro ed eccessivo condizionamento da parte della tv.
Per lui, scampato ad una guerra e ai campi di concentramento, testimone di altri feroci conflitti contemporanei, nessun dramma era privo di luci e di speranza. Non per facile ottimismo, ma perché dalla forza vitale della natura traeva motivo per confidare anche nelle situazioni più disastrate. «In fondo – ebbe a dirmi ad Asiago, e s’era appena spenta la guerra del Kosovo – anche laggiù, fra quelle rovine, la primavera fiorirà nuovamente».
Se n’è andato a 86 anni il 16 giugno 2008, appena trascorsa quella primavera che considerava la stagione migliore per morire perché è quella della speranza, dove tutto riprende a vivere.