La voce del silenzio

Una moltitudine silenziosa sfila per le strade delle città ricordando la figura del procuratore Alberto Nisman, trovato misteriosamente morto un mese fa, mentre stava per presentare una denuncia contro Cristina Kirchner. Il logorio istituzionale, le ombre e i sospetti che si addensano sulla testa della presidente
Argentina

Si stima che 400 mila persone abbiamo partecipato in varie città argentine alla marcia del silenzio di mercoledì scorso, convocata da alcuni procuratori federali con l'intenzione di ricordare la morte di Alberto Nisman, avvenuta un mese fa. A Buenos Aires, dove è avvenuta la principale mobilitazione, una folla immensa ha percorso le vie del centro, tra il Parlamento e la storica Plaza de Mayo, sfidando la pioggia insistente. 

Il gruppo di coloro che hanno convocato la manifestazione non si è messo alla testa del corteo e non sono stati pronunziati discorsi. Il silenzio era pressoché totale, per alcuni commovente, interrotto di tanto in tanto dal canto dell’inno nazionale o dall’invocazione: «Argentina, Argentina». Sono state bandite le insegne e i leader politici che hanno partecipato alla marcia lo hanno fatto con discrezione. 

Alberto Nisman è stato trovato morto nel suo appartamento di Buenos Aires un mese fa, il giorno prima di presentare in Parlamento gli elementi della denuncia da lui presentata a dicembre contro la presidente Cristina Fernàndez de Kirchner, il suo ministro degli Esteri ed altre figure politiche, accusati di aver stipulato un trattato con l’Iran allo scopo di coprire le persone sospettate dell’attentato contro la sede dell'istituzione ebraica Amia, che nel 1994 provocò 85 morti e 300 feriti.

Un’accusa grave, proveniente proprio dal procuratore incaricato di investigare sull'attentato. Quattro settimane dopo il ritrovamento del cadavere, non è ancora chiaro se si sia trattato di suicidio o di omicidio. 

Gli interventi del governo, e della stessa presidente, su un caso più che delicato, sono stati goffi e per niente rassicuranti in merito all’indagine condotta con professionalità ed indipendenza del potere giudiziario: questa è l’altra motivazione della marcia. Dopo aver avallato la tesi del suicidio, la presidente si è pubblicamente avventurata in una serie di elucubrazioni che hanno provocato ulteriore confusione, nella pretesa di gettare ombre sull’azione di Nisman, alludendo a un possibile complotto contro di lei. 

Per uno dei procuratori federali che ha firmato la convocazione della marcia, sarebbe bastato un gesto di cordoglio della presidente Kirchner per evitare la mobilitazione. Ma non fa parte dello stile di questa presidente il tono pacato e la disponibilità ad abbattere gli steccati, quanto piuttosto la tendenza a polarizzare la politica dissolvendo le posizioni intermedie: noi e loro, bianco o nero, a favore o contro… Cristina raddoppia sempre le scommesse. 

Per il governo la convocazione della marcia è stata una “strana” iniziativa, condotta da appartenenti a uno dei poteri dello Stato che dovrebbero svolgere il loro lavoro invece di protestare, sotto l’egida dei media contrari al governo e dei settori dell’opposizione che hanno approfittato di una buona occasione per logorare la maggioranza a otto mesi dalle elezioni politiche. 

Una lettura, come molte delle letture che si possono fare su questa Argentina, che contempla ritagli di verità ma che nel suo insieme è incompleta. Non tiene conto che la posta in gioco, di certo politica, in questo caso non è elettorale e che probabilmente molti dei cittadini che hanno sfilato per le strade a suo tempo hanno votato per Cristina.

La protesta di mercoledì si è centrata sui valori repubblicani, la separazione dei poteri che garantisce l'indipendenza di una giustizia sotto costante pressione, spesso umiliata e criticata per i suoi vizi (che non sono pochi), ma utilizzata anche oggi allo stesso modo che nel passato, lasciando l’impressione che il principale problema sia la poca disponibilità di alcuni giudici ad essere addomesticati. 

Si avverte nel Paese il logorio istituzionale alimentato da un agonismo politico, di cui la presidente è non la unica ma la principale responsabile, perché tende ad usare le istituzioni e i poteri pubblici prevaricando i limiti posti dallo Stato di diritto. Sarà questo, probabilmente, il principale aspetto negativo di una gestione che, sebbene abbia inizialmente fatto risorgere il Paese dall'abisso nel quale era caduto, ha sacrificato il valore della costruzione di un progetto comune sull’altare del proprio progetto egemonico. È forse quanto si è voluto gridare col silenzio di mercoledì scorso. 

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