La vocazione alla verità

Il malheur, la fragilità, Dio per Simone Weil, filosofa ebrea francese, voce unica nel panorama filosofico del Novecento.  La prefazione di Piero Coda al libro edito da Città Nuova.
Simone Weil

«Ogni essere è un grido silenzioso che chiede di essere letto in maniera diversa» scrive Simone Weil.  Filosofa e mistica francese vissuta a cavallo dei due conflitti mondiali la Weil resta una delle figure più affascinanti del panorama filosofico di tutti i tempi per quella vitale commistione di vissuto, pensiero e ricerca. Mai contaminati da steccati predefiniti o da soluzioni concilianti, perché parlano dell’essenza più profonda dell’uomo e della sua ricerca verso valori assoluti.

Il suo pensiero ha travalicato senza indugi quanto la seconda guerra voleva cancellare più di quanto ogni spirito avrebbe potuto coltivare. 

Animo particolarmente sensibile a cogliere le sfumature dell'esistenza aveva scelto come via privilegiata nella propria vita la partecipazione. Eccola allora passare dall'insegnamento alla fabbrica, le officine Renault, dal lavoro nei campi a Marsiglia alle manifestazioni sindacali. Doveva sperimentare: nonostante insegnasse in un liceo decise di percepire quanto spettava ad un disoccupato, capire perché  «La società è diventata una macchina per comprimere il cuore».  E poi la sua identità, così scomoda per il suo tempo. Simone di origine  ebrea fu costretta a fuggire dalla Francia alla vigilia della seconda guerra mondiale prima a Marsiglia poi gli Stati Uniti e infine l’Inghilterra dove morì a soli 34 anni.

La sua è ricerca della verità e che ha Dio come oggetto privilegiato. Un verità che l'ha consumata fin dalle fibre del suo essere perché è l’umanità ferita, la fragilità dell’esistenza umana che dispiega la passione di Dio per l’uomo. Tutto questo era il malheur per la Weil. Lo analizza nei suoi elementi il libro di Farina  Dio e il male in Simone Weil edito da Città Nuova e ce lo introduce il teologo Piero Coda nella prefazione di seguito.
 
«Quello di Simone Weil non è un pensiero conciliato e conciliante. Non c’è nessuna dialettica che, dall’interno, lo spinga necessariamente verso un esito che, proprio perché ritenuto definitivo e risolutore, ne immobilizza e distrugge di fatto la vitalità – e cioè il riferimento insuperato e creativo alla realtà. Il pensiero della Weil è piuttosto un pensiero lancinante che, lungi dal conciliare l’esistenza, la guarda dritta negli occhi: e penetra come spada a doppio taglio nelle sue fratture e interruzioni. Proprio così mettendone allo scoperto il grido. Quello che la rinvia al di là di sé, ma da dentro se stessa.
 
«Malheur è in verità termine quasi intraducibile, poichè rimanda allo stato di sventura dell’uomo, nella convergenza delle due radici, per il vero assai diverse e persino irriducibili, che lo producono: il male frutto della finitezza e incompiutezza del mondo, e il male che è identico all’egoismo dell’uomo che si rifiuta all’incontro, ad altri infliggendo le conseguenze di tale chiusura.

«Così, l’avventura vissuta dalla Weil, personalissima, certo, e come poche altre, ma al tempo stesso singolarmente capace d’evocare l’inquietudine che travaglia la contemporaneità, ci è riproposta guardando in uno al suo insieme e al centro che la risucchia, la distilla nel suo messaggio e ce la porge come dono capace d’illuminare gli occhi della fede e quelli della ragione, nel loro indisgiungibile richiamarsi.

«Ciò è favorito, non da ultimo, dal carattere engagé della lettura di Farina, che sinceramente si sposa con una lunga e attenta frequentazione della testimonianza esistenziale e intellettuale della Weil e con l’ampia documentazione delle interpretazioni più stimolanti che ce ne sono state offerte in questi ultimi decenni. Senza del resto dimenticare il contesto – spirituale e sociale, teologico e filosofico – entro il quale si stagliano nitide la singolarità di tale testimonianza, ma insieme quella eccedente contemporaneità che non rende possibile archiviarla come episodio, sia pure oltremodo significativo, del passato: ma può e deve stimolare a una ripresa ponderata, e profetica, del suo incandescente nucleo ispiratore.

«Su due pilastri, in effetti, si regge la possente e snella arcata della meditazione weiliana. Da un lato – come ben si evince dalle pagine del presente saggio –, un’acutissima fenomenologia vissuta, già da sempre, del malheur come quell’evento e quella situazione che impigliano l’esistenza come una preda caduta in una trappola da cui è impossibile ormai potersi liberare. Dall’altro, la “discesa” di Dio sino a farsene egli stesso prigioniero. Per testimoniare, così, che “questa” distanza, che è non solo distinzione, ma distacco, e prova, e ripulsa, è il luogo dell’incontro e della libertà del riconoscimento: e cioè, dell’amore che è verità e della verità che è amore.
 
«Questa discesa, che si fa evento nella kenosi di Gesù quando il Figlio di Dio si fa carne e patisce l’abbandono, diventa a un certo punto esperienza di Simone. Già da sempre in qualche modo presagita, in quell’attenzione perseverante e quasi ossessiva all’uomo che vive nel e del malheur, essa diventa un giorno, per lei, accadimento dell’evento. Diventa quel che è in sé: realtà. Perché il malheur, da quando Gesù vi s’è calato dentro, è la realtà in cui – come la Weil paradossalmente e splendidamente afferma – Dio a ciascuno distintamente e appassionatamente sussurra: “ti amo!”. Così che il malheur, in quanto questa realtà, diventa il luogo ove "si gira la chiave", "si supera la soglia", "si è obbligati a passare dall’altra parte".
 
«È straordinario che nessuno, a quanto io conosca, dei pensatori d’ispirazione cristiana lungo il corso di quel novecento che pure è così ricco e sgargiante perché così abissale la voragine che quasi l’ha inghiottito, si sia spinto tanto lontano. Perché, davvero, la testimonianza della Weil – restata sulla soglia dell’adesione alla comunità storica del Cristo per fedeltà al messaggio più vero del Maestro, così come lei l’ha inteso a sé rivolto –, dispone per noi la chiave del segreto per vivere e pensare altrimenti. Perché, appunto, il Figlio s’è fatto carne e vive l’abbandono in ogni forma che il malheur assume e presenta nelle e alle nostre esistenze. Il passo che ci tocca è che la sua realtà diventi ciò che per sé vuol essere: la nostra realtà.

Sono questo imperativo e questa promessa di un “altro” pensare che è vivere – quello secondo la mente del Logos crocifisso in cui è la vita che è luce per gli uomini  – che ci affascinano, con gratitudine, in Simone Weil».

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