La vocazione a seguire Gesù
Quando mi propongono di parlare della vocazione a seguire Gesù, magari a gruppi di giovani delle più varie provenienze, provo un particolare sentimento di gioia. Ed ogni volta il tema risulta a me stesso nuovo, perché ogni volta è come rimettersi a contatto con Dio, che mi ha chiamato a seguirlo come focolarino sacerdote più di cinquant’anni or sono – era circa il 1949 -, e che continuamente mi richiama. La sua chiamata, infatti, è qualcosa che intesse tutta la vita, in ogni suo istante. Penso che per parlare adeguatamente della vocazione occorre rifarsi al Nuovo Testamento, là ove si attinge la chiamata pura, genuina, originale. Iniziamo dalla chiamata degli apostoli. Gesù stava presso il lago di Genezaret. Vide due barche ormeggiate alla sponda. Una di esse era di Simone. Dopo esservi salito ed aver ammaestrato la folla, disse a Simone: “Prendi il largo e calate le reti per la pesca”. Simone rispose: “Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti”. E avendolo fatto, presero una quantità enorme di pesci e le reti si rompevano. Allora fecero cenno ai compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli”. E poiché Simone, Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, che erano soci di Simone, erano presi da grande stupore per la pesca che avevano fatto, “Gesù disse a Simone: “Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini””. Ed essi, “tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono ” (Lc 5, 1 -11). Possiamo presumere che Simone, come Giacomo e Giovanni, svolgendo una attività – diremmo oggi – da piccoli imprenditori, fossero persone benestanti, con una propria famiglia. Ad un certo momento, ecco l’incontro con quell’uomo che non conoscevano ancora come il Messia, il Figlio di Dio; poi la pesca miracolosa, il loro stupore misto a spavento, le poche parole di Gesù. Ed essi avvertono dentro, profonda, la personale chiamata che il Vangelo, con semplicità divina, così esprime: “Lasciarono tutto e lo seguirono”. Lasciarono tutto. Lasciarono la famiglia – probabilmente Simone lasciò pure la moglie, magari per breve tempo -; lasciarono i loro piccoli beni; lasciarono le loro abitudini, la loro vita di sempre per seguire questo profeta, questo predicatore che andava lungo le strade della Galilea e della Giudea ad annunciare qualcosa di nuovo. Ricordo la mia vocazione. Io non ho sentito l’invito di Gesù a lasciare tutto. Ho sentito però – così come, penso, tutti quelli che lo seguono – una voce sottilissima, dolce, soave, che mi ha fatto vedere la bellezza di una vita diversa da come fino allora l’avevo concepita e impostata, una vita vissuta completamente per Dio e per l’umanità, una vita che mi avrebbe riservato anche incognite e dolori, ma dalla quale irresistibilmente ero attratto. Un’altra chiamata: quella di Levi. Narra il Vangelo di Luca: “Dopo ciò Gesù usci e vide un pubblicano di nome Levi seduto al banco delle imposte “. (Un pubblicano era considerato un peccatore pubblico, che approfittava della riscossione delle tasse per opprimere il suo popolo oltre ogni dovuto dovuto e, per di più, per conto dei romani, quindi di una potenza straniera). Gesù, passando davanti al suo banco, gli disse: “”Seguimi!”. Egli, lasciando tutto, si alzò e lo segui” (Lc 5, 27). In questo racconto la chiamata appare come qualcosa di folgorante e di straordinario, che ci coglie in un momento particolare della vita, qualunque sia la condizione spirituale in cui possiamo trovarci. È quanto emerge anche in un altro stupefacente brano evangelico. Con i Dodici, anche alcune donne seguivano Gesù; fra queste Maria di Magdala, “dalla quale – annota ancora Luca – erano usciti sette demoni” (Lc 8, 2). Anche lei era stata chiamata dal Maestro, senza che egli tenesse alcun conto della sua vita precedente, tanto da attirarsi le critiche degli scribi i quali mormoravano contro di lui e i suoi discepoli dicendo: “Perché mangiate e bevete con i pubblicani e i peccatori?”. Gesù rispose loro: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori a convertirsi” (Lc 5,30-32). Dio, fra i suoi collaboratori diretti, ha bisogno anche di peccatori, cioè di persone che, pur provenendo da un’esperienza negativa, non si sono fermati ad essa, ma hanno saputo superarla, sublimandola nel dono di sé a Dio a favore dell’umanità. Sono, le loro, meravigliose storie di santità – ricordo, per tutte, quella di Agostino – che hanno abbellito la chiesa, portando ad essa frutti innumerevoli. Ma il Vangelo non manca di riportare un’altra vocazione diversa da quefle finora richiamate e che invita a riflettere in modo particolare. È la vocazione del giovane ricco. “Un tale corse incontro a Gesù e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: “Maestro buono, che devo fare per avere la vita eterna?”. Gesù gli rispose: “Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti. Il giovane gli disse: “Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza”. (Quanto diverso da Levi questo giovane, nella sua perfetta osservanza!). “Allora Gesù, fissatolo, lo amò” (ecco la chiamata: lo sguardo d’amore di Gesù su di lui) e gli disse: “Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi”. (Stupenda sintesi della vocazione, nella sua totalitarietà e interezza). “Ma egli – conclude il racconto evangelico -, rattristatosi per quelle parole, se ne andò afflitto, poiché aveva molti beni” (Mc 10, 17-22). È davvero misterioso il Regno di Dio! Qui un giovane buono oppone il suo rifiuto alla chiamata di Gesù. E lo fa perché è ricco: ricco di quel senso di sicurezza e di potenza che il denaro gli dà, pur non usando egli male dei suoi beni. Ma il possesso di quei beni gli ha impedito di capire il particolare sguardo d’amore di Gesù. Egli stava per ricolmarlo della ricchezza più grande: “Avrai un tesoro in cielo…”, un tesoro spirituale, di infinita bellezza, che lo avrebbe ricolmato anche in terra, poiché cielo e terra sono profondamente congiunti, sebbene i nostri occhi siano talvolta incapaci di vederlo. Quel giovane vi rinunciò “e se ne andò, triste”. Ho avuto più volte occasione di parlare con persone che, dopo anni di corrispondenza, hanno rinunciato a seguire la chiamata di Dio. Qualunque età essi avessero, ho sempre trovato in loro tristezza e inquietudine, disagio spirituale misto talvolta a rassegnazione. Certo, Dio non li abbandona, poiché la sua chiamata, frutto del suo libero amore, implica la risposta libera dell’uomo. Tuttavia si comprende la tristezza che in loro permane, una tristezza, per così dire, ontologica, poiché la vocazione non è qualcosa di accidentale: è piuttosto qualcosa di sostanziale, che tocca l’uomo nel suo profondo, una sorta di nuova creazione. Perciò, quando l’uomo risponde all’amore di Dio che lo chiama con un atto d’amore, è come uno sposalizio spirituale che avviene fra i due, è un dono totale. Senza dubbio può accadere che talora, da parte dell’uomo, venga meno la fedeltà. Pietro stesso, l’apostolo per eccellenza, ha rinnegato il Maestro, e pure i discepoli, tutti, nel momento della Passione lo hanno abbandonato. La chiamata, quindi, non implica una perfezione già compiutamente raggiunta. Richiede invece di corrispondervi ogni giorno e, se necessario, di ravvedersi e ricominciare di nuovo. Questo è il significato profondo della chiamata. Ma torniamo al Vangelo di Luca. Qui troviamo raccolte alcune rilevanti notazioni su ciò che comporta il seguire Gesù. Le esamino brevemente. “Mentre andavano per la strada, un tale gli disse: “Ti seguirò dovunque tu vada”. Ora, occorre tenere presente che, in quel tempo straordinario, seguire Gesù non significava entrare a far parte di una qualche particolare comunità di vita o, meno ancora, di un ordine religioso. Significava piuttosto vivere con lui sulla strada, camminando per le vie della Palestina. Una vita dura, dunque, esigente, sì che Gesù ritiene necessario precisare a quel tale: “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo ” (Lc 9, 57-58). Nei secoli successivi, con il sorgere e il costituirsi di varie forme di vita comunitaria, l’amore della chiesa, espresso dall’intera comunità dei credenti, ha provveduto a che tutti i seguaci di Gesù avessero il sostentamento necessario e il luogo adeguato per vivere conformemente alla loro vocazione. Ciò non annulla tuttavia l’esigenza radicale, propria della sequela di Gesù, a non avere “dove posare il capo”, a non possedere niente. Li è racchiuso il fascino di quella sequela. Il resto è il sovrappiù che viene, il dono di Dio che mai manca. Sempre più mi convinco che questa vocazione totalitaria non è soltanto di coloro che sono chiamati a una forma di vita consacrata: è la vocazione di tutti i seguaci di Gesù, che si esprimerà poi in modalità di vita varie; è di tutti, perché tutti sono chiamati a donarsi completamente a lui. A un altro Gesù disse: “Seguimi”. E costui rispose: “Signore, concedimi di andare a seppellire prima mio padre”. Gesù replicò: “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu va’ e annunzia il regno di Dio” (Lc 9, 59-60). Con probabilità le parole di questo interlocutore di Gesù non riflettono realisticamente una situazione sopraggiunta, quella, appunto, della morte del padre; sottendono piuttosto la richiesta di attendere che il padre termini i suoi giorni in pace, poi egli seguirà il Maestro. La risposta di Gesù è inequivocabile: la sua chiamata implica il formarsi di una famiglia nuova, che, alla stregua dei chiamati al matrimonio, domanda di lasciare il padre e la madre, di superare perciò – pur mantenendo il doveroso affetto verso i genitori – un amore naturale per un amore nuovo: quello che lega i membri della famiglia di Gesù. “Un altro disse: “Ti seguirò, Signore, ma prima lascia che io mi congedi da quelli di casa”. Ma Gesù rispose: “Nessuno che ha messo mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio” (Lc 9, 61-62). La chiamata a seguire Gesù richiede il dono totale di sé per tutta la vita. È, come abbiamo detto, lo sposalizio con Dio: un salto qualitativamente così diverso da qualsiasi altro da coinvolgere l’intera esistenza, da non poter più tornare indietro. Si potrà forse cadere, e rialzarsi, ma nessuno potrà più tornare indietro. Quelli che lo faranno assaporeranno per tutta la vita un’angoscia sottile, che niente potrà soffocare. Molte altre vocazioni ancora costellano il Vangelo. Su tutte, una ha attratto in modo particolare la mia attenzione, per il fatto che vi è apparentemente assente la dimensione del lasciare tutto. È la vocazione di Maria. Quando l’angelo le annuncia che diventerà madre del Figlio di Dio, Maria risponde semplicemente: “Eccomi, sono la serva del Signore ” (Lc 1, 38). Non vi è dubbio che queste brevi e dense parole evocano il più radicale lasciar tutto, ma è un lasciar tutto che avviene in maniera silenziosa, in maniera – possiamo davvero dire – mariana. Sono parole che ci conducono al di là di ogni umana considerazione, ove tutto è sublimato, ove ogni cosa diventa secondaria dinanzi a Dio che chiama, ove riluce solo l’adesione e la positività del donarsi a lui. Ma vi è ancora una vocazione su cui vorrei soffermarmi. È la vocazione di Gesù. Anche Gesù, in modo suo proprio, in quanto Figlio di Dio, è stato chiamato ab aeterno, quando la Trinità ha decretato di manifestare al mondo il suo amore inviando Lui, il Figlio unigenito del Padre. Ecco allora la sua venuta sulla terra: trent’anni di vita, accanto a Maria e Giuseppe, nell’intimità della loro casa e del loro lavoro. Poi la sua andata nel deserto: quaranta giorni di preparazione prima di manifestarsi come il Messia. Lì – scrive Luca – “fu tentato dal diavolo”. È stupefacente: Gesù ha voluto provare la tentazione! Continua Luca: “Non mangiò nulla in quei giorni” (il digiuno, come sappiamo, era una forma di penitenza molto in uso), trascorsi i quali “ebbe fame. Allora il diavolo gli disse: “Se tu sei Figlio di Dio, dì a questa pietra che diventi pane”. Gesù gli rispose: “Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo!” (Lc 4, 1A). Apparentemente sembra che Gesù, appellandosi alla Scrittura (cf. Dt 8, 3), si rifiuti di trasformare la pietra in pane, quasi fosse insensibile dinanzi a questo primario bisogno dell’uomo. Di fatto, narrano i Vangeli che, durante la sua vita pubblica, egli si preoccupa di sfamare la moltitudine che lo seguiva, priva di tutto; per ben due volte moltiplica del pane, fino a saziare cinquemila uomini, più le donne e i bambini, e – annotano gli evangelisti – ne avanzarono ancora dodici ceste (cf. Mt 14, 13 -2 1; Lc 9, 10-17). Quale significato cela allora la risposta di Gesù al demonio? Penso sia quello di farci attenti a non strumentalizzare il potere spirituale, di cui possiamo essere depositari, al fine di ottenerne un vantaggio materiale. Sarà invece dando il “pane della vita” – così come ci insegna Gesù – che arriverà anche il pane materiale. Il diavolo – continua l’evangelista – condusse poi Gesù “in alto, e mostrandogli in un istante tutti i regni della terra, gli disse: “Ti darò tutta questa potenza e la gloria di questi regni, perché è stata messa nelle mie mani e io la do a chi voglio. Se ti prostri dinanzi a me, tutto sarà tuo”. Gesù gli rispose: “Sta scritto: Solo al Signore Dio tuo ti prostrerai, lui solo adorerai” (Lc 4, 5-8). Sono misteriose le parole che il diavolo pronuncia: sembra quasi che Dio gli abbia concesso di regnare sulla terra con ricchezza e potenza. Anche il seguace di Gesù può essere tentato di trasformare il suo potere spirituale in potenza religiosa e politica. È invece l’umiltà cristiana che egli dovrà esercitare, sia che tratti con i poveri sia che tratti con i ricchi e i potenti. È questo che Dio gli richiede. Infine – ed è l’ultima tentazione che Luca riporta -, il diavolo condusse Gesù “a Gerusalemmel lo pose sul pinnacolo del tempio e gli disse: “Se tu sei Figlio di Dio, buttati giù; sta scritto infatti: Ai suoi angeli darà ordine per te, perché essi ti custodiscano (…)”. Gesù gli rispose: “È stato detto: Non tenterai il Signore Dio tuo” (Lc 4, 9-12). È forse, questa, la tentazione più sottile: il gloriarsi delle ricchezze spirituali donateci da Dio. In realtà, egli le elargisce in abbondanza a coloro che lo seguono. Così le esemplifica Marco: “Nel mio nome scacceranno i demoni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano i serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno, imporranno le mani ai malati e questi guariranno” (Mc 16, 17-18). Mai però è dato dimenticare che anch’esse vanno poste a servizio dei fratelli. Santi di ogni epoca, a partire dalla prima comunità cristiana, ne sono la testimonianza viva. Qui, per noi, si impone ancora una volta il richiamo all’umiltà evangelica: anche se Dio ci ha scelti e resi capaci di immettere nell’umanità una corrente di vita nuova, dobbiamo gioire soltanto di essere discepoli di Gesù, di amarlo e di sentirsi amati da lui.