La vittoria di Trump sui giornali del mondo
«He’s Don it again», “L’ha fatto di nuovo”, giocando sull’assonanza tra “done” (fatto) e “Don” (diminutivo di Donald): così titola la sua edizione cartacea il New York Post, testata nota per le sue maniere un po’ colorite, mentre il sito apre con «Donald Trump vince le presidenziali del 2024, sfidando di nuovo i pronostici».
L’impressione che si ricava nel leggere i titoli all’indomani delle elezioni, con i voti non ancora del tutto conteggiati ma con una vittoria repubblicana già chiara, è di una certa incredulità; non tanto per il ritorno alla Casa Bianca dell’ex presidente, quanto per l’entità del margine di vittoria, ampiamente superiore alle previsioni di un testa a testa – con un lieve vantaggio dell’uno o dell’altro candidato, a seconda delle rilevazioni. Soprattutto, osserva sempre il New York Post, «Trump si avvia a vincere anche il voto popolare, mettendo fine a 20 anni di sconfitte dei candidati repubblicani nel conteggio totale dei voti».
Insomma, non c’è spazio questa volta per dire che in realtà la maggioranza degli elettori ha scelto l’altro candidato, e solo il complesso meccanismo dei grandi elettori ha fatto sì che vincesse chi in realtà ha preso meno voti: al momento in cui scriviamo, pur con risultati ancora parziali, si contano circa 65 milioni di voti per Kamala Harris, e circa 70 milioni per Donald Trump. Parliamo, ricordiamolo, di un Paese di 335 milioni di abitanti: per quanto i dati sull’affluenza non siano ancora definitivi (i voti postali non sono ancora stati tutti registrati), un’affluenza definita come “record” è comunque assai bassa in termini percentuali.
Trump si è già rivolto ai suoi sostenitori nella notte, con un discorso dai toni più concilianti rispetto ad altri avuti in passato, e promettendo di lavorare per “sanare l’America” e riportare “un’età dell’oro”; silenzio invece, per ora, da parte di Harris.
E in effetti i Democratici vengono da più parti definiti “nel panico”; mentre il Washington Post, in un suo editoriale a sei mani, si chiede «Cosa è andato storto nella campagna di Harris». Tra le criticità citate, la pesante eredità di un Biden che si è ritirato in quel modo, la questione di genere, la rabbia di gran parte della popolazione che ha (di nuovo) visto in Trump una figura di protesta e di rottura.
Spostandoci al di fuori degli Usa, verrebbe da guardare per prima cosa alla Russia: per quanto infatti il Cremlino abbia apertamente dichiarato di non voler prendere posizione della corsa per la presidenza americana, il legame tra Trump e Putin è assai discusso. In effetti la Komsomol’skaja Pravda, tradizionalmente filogovernativa, per quanto indugi sui dettagli della vittoria di Trump – dal suo discorso definito come “infuocato”, a Kamala Harris “sparita dalla scena pubblica” -, non “scivola” comunque nel trionfalismo. Anche il Kommersant apre citando Trump, «Sarà un’età d’oro per l’America», ma rimane nell’ambito di un resoconto delle votazioni.
Spostandoci nella “nazione sorella” degli Usa, il Regno Unito, è assai tagliente il Guardian che, oltre a dare il resoconto dei fatti, in un editoriale a firma di Francine Pose paragona la democrazia ad un paziente in agonia. «Indipendentemente dal vincitore – scrive Pose – questa campagna elettorale è stata uno spaccato del nostro Paese [Pose è americana, ndr]. E non è un quadro consolante. Le divisioni sono sempre più profonde, o forse solo più aperte […] I dittatori non vogliono costruire ponti, preferiscono le divisioni. Vogliono che le persone credano che il proprio Paese sia in pericolo a causa di maniaci che vogliono togliere fondi alla polizia e dare il benvenuto a corriere di narcos e serial kiler”. Il riferimento a Trump è fin troppo evidente.
Lo spagnolo El País titola l’analisi di José Miguel Contreras «Il re Trump», affermando che «Il nuovo presidente ha vinto promuovendo la vendetta, il rancore, l’odio, l’insulto e il litigio. Ora non resta che vedere come si dispone a regnare».
Più conciliante il francese Le Monde, che apre con la notizia del messaggio istituzionale di congratulazioni a Donald Trump del presidente Emmanuel Macron, che si dice «pronto a lavorare con lui». Anche qui, comunque, l’articolo del corrispondente da Washington Piotr Smolar parla di un Trump mosso «dal suo istinto politico e dal suo desiderio di vendetta».
Di nuovo sferzante il tedesco Der Spiegel, che titola «Lo shock Trump». Affermando che «si profila una svolta politica per il Paese e per il mondo», fa altresì notare come, al di là delle congratulazioni di rito del cancelliere Scholz, si sia notato un “trionfo” di Netanyahu e Orbàn.
All’altro capo del mondo, l’australiano The Age titola «Trump ottiene uno storico ritorno alla Casa Binaca mentre il leader mondiali lo incoronano»; senza tuttavia risparmiare un editoriale dal pungente titolo «Donald Trump è il becchino della democrazia americana», e anche – giusto per par condicio – un altrettanto pungente «Quando Biden ha preso il potere, ha detto che avrebbe cercato di salvare la democrazia negli Usa. Lui e Harris hanno fallito». Spazio hanno anche poi i timori nei confronti delle politiche protezioniste annunciate da Trump, che potrebbero avere contraccolpi sui posti di lavoro in Australia.
Il mondo, insomma, ha già dato voce a reazioni vivaci. Come del resto, verrebbe da dire, son sopra le righe i modi del candidato vincente.