La vita vera è un’altra cosa

Articolo

C’era una volta un indistruttibile robot delle nevi, implacabile, vincente: lo chiamavano Herminator. Improvvisamente, un giorno d’agosto del 2001, la sua corsa si interrompeva. Sulla traiettoria di Herminator, lanciato in moto, un auto in inversione vietata: uno scontro tremendo, le condizioni disperate, la gamba destra maciullata. La notizia fece il giro del mondo: la carriera di Hermann Maier è finita, i medici dovranno amputargli la gamba. A Salisburgo tentarono il miracolo: forse potrà almeno tornare a camminare. L’improvvisa insufficienza renale che sopraggiunse lo tenne una settimana in pericolo di vita, una situazione che visse cosciente, attanagliato dalla paura. Lentamente si riprese, ma davanti a lui era tracciato un calvario infinito e doloroso di riabilitazione. Quando, dopo mesi, si mostrò in pubblico, era un uomo stanco, smagrito dal dolore, gli occhi lucidi e smarriti: “Mi sto allenando ” bleffò maldestramente. Allenando per cosa? Sorrise. “Per tornare un uomo normale”. La ferita era stata molto più profonda di quella riparata dai medici, era arrivata sino al cuore. Tutti gli sorridevano, molti gli battevano pacche sulle spalle, ma lo sguardo andava a cadere, prima o poi, impietoso, su quella gamba che, sottile, sciacquava nel pantalone, frustrando le speranze di un ritorno sugli sci. “Mi alzo la mattina e sono già pieno di dolori, mi sento duro, come di marmo. Quando vedo le montagne, coperte di neve, sento ancora un irresistibile desiderio di velocità, ma quando i compagni vanno a sciare resto da solo, in palestra” Non riesco nemmeno a pensare di poter infilare gli scarponi ai piedi”. Per un anno e mezzo, lontano dai riflettori, Hermann ha sofferto e sudato in silenzio, mentre nel suo intimo andava maturando, giorno dopo giorno, l’alba di una nuova stagione della vita. Quando il 14 gennaio 2003 è tornato in pista nel gigante di Adelboden, molti hanno pensato ad una manovra solo pubblicitaria: 31esimo, l’ombra del dominatore assoluto, il volto solcato da smorfie di dolore. Eppure per lui fu il segnale. Pochi giorni dopo fu settimo in libera a Wengen. Ma Hermann era consapevole che il vero miracolo era avvenuto dentro di lui. “Sì, sono cambiato – ha voluto spiegare -. Faccio le stesse cose di prima, ma non è la stessa cosa. Vedo la vita in un altro modo. Mi sono accorto che nella nostra esistenza ci sono tante altre cose oltre alle coppe da alzare nel cielo. La sofferenza ha fatto di me una persona diversa. Mi rendo conto che non tutto mi è dovuto, che il destino dà e toglie, che per raggiungere un traguardo abbiamo bisogno” di un lasciapassare dall’alto”. Sorprendente, inatteso, Herminator non c’è più: quell’aggressività, quella spavalderia, quel suo digrignare i denti davanti alle telecamere è solo un ricordo. Oggi lavora, si allena, ma ha imparato a sorridere, ad ascoltare gli altri. Della sua profonda metamorfosi se ne sono accorti tutti attorno a lui. Ed Hermann non se ne vergogna affatto, anzi. Davanti ad una folla di giornalisti increduli, Maier ha recentemente rincarato la dose: “Quando pensavo di essere l’uomo più sfortunato della terra, ho visto nelle corsie di ospedale tanta gente che stava peggio di me, che non aveva i miei privilegi e tutte le porte aperte. Mi sono accorto della gente, del mondo. Ho capito che l’esistenza di uno sportivo non è reale: si vive in una dimensione speciale che ha poco contatto con la realtà. La vita, quella vera, è un’altra cosa. Nel cuore della gente ci sono tante cose, non c’è solo Maier che vince o che perde”. Ad inizio stagione Hermann è tornato nell’olimpo del circo bianco, ma è sembrato quasi snobbare la popolarità ritrovata: “No, non rinnego niente, ma vedo tutto con occhio diverso. Forse, se tornerò a vincere, sarà ancora più bello, ma sarà un’esperienza più completa. Adesso leggo giornali, non solo per vedere cosa si scrive di me, ma per capire cosa succede nel mondo. Forse mi sento un po’ più piccolo””. Oggi Maier, come aveva sperato, è tornato a vincere e guida la classifica di coppa del mondo. “Devo ancora convivere con dolore – si è affrettato spiegare – e il dolore, in pista, ti leva l’istinto e la gioia necessari per andare forte. Ora ho un diverso rapporto con la paura: vedo il pericolo, certi salti non li farei più. Non ho più la forza fisica di prima: devo trovare la competitività percorrendo altre strade. E se non riuscirò a vincere non me farò un cruccio. Molti dicono che questa è la mia seconda vita: per me è la stessa, la continuazione del mio destino, ma con più esperienza sensibilità”.

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons