La vita si fa storia
«Per non smarrirci abbiamo bisogno di respirare la verità delle storie buone: storie che edifichino, non che distruggano», dice papa Francesco nel Messaggio per la Giornata delle Comunicazioni sociali, mentre raccomanda di non usare storie a fini strumentali, ma di raccontare il bello che ci abita, rivelare l’intreccio di fili che legano gli uni agli altri. Ne abbiamo parlato con Lucia Capuzzi, giornalista di Avvenire, autrice per Città Nuova de Il giorno prima della pace, che si occupa di questioni internazionali, in particolare di America Latina.
Papa Francesco sottolinea l’importanza di storie edifichino e non distruggano. Quanto è importante, per una giornalista, narrare gli eventi in questa chiave?
Non necessariamente una notizia buona è una buona notizia, è una notizia a lieto fine o edulcorata o volutamente mutilata. Una notizia buona può essere anche una notizia di un fatto tragico, di una guerra, di una carestia, di una calamità, ma quello che differenzia le notizie che sono notizie buone, storie buone o storie cattive è lo sguardo con cui le si racconta. Se quella storia viene manipolata, viene soprattutto mutilata della complessità. Guardare alla storia vuol dire andare oltre l’orrore, lo stereotipo di quell’orrore, vuol dire entrare nella complessità di quella storia, non incasellarla o giudicarla a priori, dare spazio all’umanità dell’essere umano che si manifesta anche nei carnefici, che si manifesta anche nelle storie di denuncia. Una storia di denuncia può – e molto spesso è – una storia buona perché dà voce alle vittime, ma quelle vittime non devono essere manipolate e usate per altri scopi, per creare allarmismi o seminare odio, seminare paura. La voce delle vittime deve essere rispettata, deve essere narrata nella sua complessità.
Nel Messaggio si precisa di fare attenzione a non ridurre la storia narrata a semplice storytelling, ma a considerarla “storia sacra”…
Credo che il Messaggio per la Giornata delle Comunicazioni sociali di quest’anno sia molto biblico. Infondo, la Bibbia è un grande racconto che racconta una storia di incontro di Dio con l’uomo e in questo incontro l’uomo cresce nel suo rapporto con Dio, quindi l’importanza della narrazione è fondamentale per l’essere umano. Come si colloca in questo contesto la narrazione giornalistica, lo storytelling? Forse lo storytelling non è solo estrarre una storia da una persona. Molto spesso c’è un tipo di giornalismo che io chiamo giornalismo “estrattivo” che è questo: vai un posto ed estorci la dichiarazione che ti serve, la foto, la narrazione degli eventi, poi vai via ma senza lasciarti minimamente toccare. Credo che questo sia il fallimento del senso più profondo del giornalismo perché se io, che sono comunicatore, non riesco a comunicare, cioè entrare in contatto, che vuol dire farmi toccare ed essere toccata e toccare l’altra persona davvero, come faccio poi a raccontare, a comunicare qualcosa i miei lettori? Da qui l’importanza di lasciarsi coinvolgere, che non vuol dire prendere partito prendere o prendere posizione, vuol dire raccontare le storie con rispetto della profondità e della complessità.
Qual è il fil rouge che attraversa il Messaggio di quest’anno?
Se c’è un minimo comune denominatore di questo Messaggio, è la complessità, la profondità. Raccontare una storia in modo buono vuol dire rispettare la complessità, non incastellarla già in uno slogan, in uno sguardo giudicante, usare fatti e persone per rafforzare la mia tesi. Un essere umano è qualcosa di più di una tesi da rafforzare, merita di essere conosciuto e di essere lasciato parlare, che vuol dire non parlare a ruota libera ma inquadrare quella storia della complessità.
Nella sua esperienza, quali storie l’hanno particolarmente toccata?
Ho la fortuna di occuparmi del Sud del mondo, in particolare di America Latina, che ti insegna una verità fondamentale, ovvero che il nostro piccolo mondo non è la regola ma l’eccezione di quello che c’è fuori dal mondo e quindi il giornalismo può aiutare ad allargare lo sguardo, deve aiutare ad allargare lo sguardo, perché quando ci concentriamo troppo, quando lo sguardo si fissa troppo, e perde la sua dimensione ampia, molto spesso certi fatti, certi fenomeni vengono sottostimati, manipolati, enfatizzati senza rendersi conto delle interconnessioni. A proposito di storie che mi hanno toccato, cito l’ultimo caso che quello di Haiti da cui sono appena tornata. Haiti nel 2020 sta persino peggio di Haiti di 10 anni fa, dopo il terremoto, perché almeno allora c’era la speranza di una possibile ricostruzione. Ora la gente questa speranza la sta perdendo, quindi non è sicuramente una buona notizia Haiti o la situazione haitiana, eppure può essere una storia buona se nel raccontare la tragedia viene rispettata la profonda dignità delle persone, la denuncia che deve essere fatta delle responsabilità viene citata a tutto tondo mostrando le interconnessioni e non buttando le colpe solo da una parte, come molto spesso si fa gettandole sui poveri perché sono poveri e considerati incapaci. Raccontare la dignità della gente pur nella tragedia, credo che sia la grande sfida di un giornalismo buono.
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